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Ciò che non si è fatto in 74 anni, si è fatto in 70 giorni

SONO BASTATI 70 GIORNI PER ESSERE TUTTI UCRAINI, MA NON 74 ANNI PER DIVENTARE TUTTI PALESTINESI…

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Un genocidio dimenticato

Il colonialismo belga in Congo, saccheggi, soprusi e genocidio!

Nel corso del XIX secolo, mentre gli Stati europei si stavano orientando verso la spartizione dell’Africa, il Belgio rivolse i suoi interessi politico-economici verso un solo Paese, situato nel cuore del continente.

Essendo una piccola nazione europea, il Belgio aveva bisogno di creare un dominio su un grande Stato, dotato di ingenti ricchezze. Le necessità geopolitiche, unite all’avidità di potere di re Leopoldo, resero il colonialismo belga uno dei modelli di dominazione più violenti e brutali che la storia africana conobbe.

Dall’esplorazioni geografiche alla politica di oppressione.

Leopoldo II (1835-1909), re del Belgio, nutriva da tempo mire espansionistiche in Africa. Per indagare le varie possibilità di colonizzazione, nel 1876 egli convocò a Bruxelles un Congresso geografico i cui obiettivi, almeno a livello ufficiale, avevano una natura “umanitaria” e “civilizzatrice”. Da quel Congresso nacque un’associazione geografica, attraverso la quale venne finanziata la spedizione esplorativa lungo il fiume Congo, che fu condotta da Henry Morton Stanley.

Mentre i francesi si stavano posizionando verso le regioni a nord del fiume Congo, i belgi attraverso Stanley si concentrarono nelle aree a sud, creando alcuni avamposti. Grazie a questa flebile presenza belga, Leopoldo II, durante la Conferenza di Berlino (1884-1885), riuscì a ottenere dalle altre nazioni europee il benestare per l’occupazione di quei territori. Nacque così lo Stato Libero del Congo, un’entità politico-amministrativa di proprietà del re belga, in cui i principi di libertà non erano affatto applicati alla popolazione locale. Di fatto, Leopoldo II aveva ottenuto la piena sovranità di quella porzione di Congo.

Ricchezza e genocidio

Il Congo era ed è una delle nazioni africane dotate di ingenti ricchezze naturali. Per Leopoldo II (nella foto qui sopra) questa fu una vera e propria manna, dato che doveva recuperare gli investimenti sostenuti per la conquista territoriale. Quello del caucciù, all’epoca, fu uno dei commerci più redditizi per il Belgio (grazie alla nascente industria dei pneumatici). Vennero create piantagioni dove i locali erano costretti a lavorare in condizioni di semischiavitù.

Si trattava di lavoro coatto. Le persone erano obbligate con metodi brutali a raccogliere una precisa quota di cacciù: se non la raggiungevano venivano mutilati o addirittura uccisi. Il lavoro coatto venne imposto anche per la costruzione della rete ferroviaria. Già in un libro del 1899, di Pierre Mille, dal titolo Au Congo Belge si legge che: “La base della politica economica di re Leopoldo fu quella di formare un’armata abbastanza forte in grado di obbligare gli indigeni a pagare le tasse sull’avorio e sul caucciù”. Proprio a causa di ciò, i locali per poter vivere furono obbligati a lavorare alle dipendenze dei belgi.

Il collegamento tra imposizione fiscale obbligatoria e lavoro coatto modificò radicalmente la struttura sociale ed economica dei congolesi. A questo shock se ne aggiunse un altro: la violenza con cui l’amministrazione coloniale belga rispose per “convincere e costringere” le persone a lavorare non soltanto nelle piantagioni. Una violenza che provocò migliaia di morti.

Come ha ricordato l’Agenzia Fides “almeno 10 milioni di persone hanno perso la vita tra il 1885 (anno di riconoscimento internazionale del Libero Stato del Congo) e il 1908, quando il Congo, da possedimento privato del Re, divenne una colonia del Belgio. La cifra di 10 milioni di morti è una stima prudente, alcune fonti parlano di 20 milioni di morti”. Si può parlare di un vero e proprio genocidio, che provocò di fatto un declino demografico.

Il pretesto della missione civilizzatrice e umanitaria

Leopoldo II riuscì a trasformare il Congo in una sua “proprietà personale” grazie al pretesto della missione civilizzatrice e umanitaria.

Il colonialismo belga, seppur particolarmente brutale, presentava comunque similitudini alle modalità colonialiste di altre nazioni europee, soprattutto se si considerano le giustificazioni con cui si volevano mascherare le vere motivazioni della colonizzazione dell’Africa.

Il paternalismo e l’eurocentrismo spingevano gli europei a “civilizzare” le popolazioni ritenute primitive.

In realtà, dietro tutto ciò si celavano interessi economici e manie di potere. Questo senso di superiorità nei confronti delle popolazioni locali, portò i colonialisti belgi a commettere atrocità e omicidi di massa. Interi villaggi furono ridotti in cenere, e migliaia di bambini, donne e uomini vennero mutilati o uccisi.

Brutalità e violenze che calpestavano proprio quell’idea di “civiltà” dietro la quale gli europei (di allora e anche di oggi) si barricano ogni volta che intendono accaparrarsi le ricchezze di altri popoli per ottenere profitto.

Gli effetti nefasti di questa prima fase del colonialismo belga si ripercuoteranno negli anni successivi. Sebbene Leopoldo II sarà costretto a cedere la sua “proprietà personale” allo stato belga, di fatto le sorti del Congo non cambieranno. Potenze straniere e multinazionali cercheranno di conquistarsi le preziose risorse congolesi.

Solo un uomo tenterà di modificare la politica di sfruttamento e di oppressione da parte del Belgio e di altri attori esterni, Patrice Lumumba, ma la sua rivoluzione sarà fermata con il suo omicidio.

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Prima che Hitler uccidesse 6 milioni di ebrei, dunque, Leopoldo II del Belgio uccise più di 10 milioni di congolesi, amputando gli arti di innumerevoli altri. Eppure solo un genocidio è condannato universalmente. Solo uno è chiamato “olocausto”. Perché? Forse perché solo un gruppo di vittime era bianco? Perché solo un massacro è avvenuto in Europa? O è perché fingiamo che tutte le vite siano uguali, ma non lo pensiamo affatto? La storia non è scritta dai vincitori. È scritta dagli oppressori.

Di Soumaila Diawara e Nicolò Govoni.

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9 maggio

72° giorno dell’operazione speciale della Russia in Ucraina:

▪️Le forze aerospaziali russe hanno distrutto un grande deposito di munizioni delle truppe ucraine presso lo stabilimento Energomashspetsstal di Kramatorsk e il sistema missilistico tattico Tochka-U è stato distrutto vicino a Novotavrichesky, nella regione di Zaporozhye

▪️L’aviazione russa ha colpito 27 strutture militari dell’Ucraina, inclusi tre depositi di munizioni, nonché 16 aree di concentrazione di forze ed equipaggiamenti. A seguito degli scioperi, furono uccisi fino a 310 soldati ucraini

▪️Missili ad alta precisione hanno colpito 31 aree di concentrazione di manodopera e attrezzature dell’esercito ucraino, nonché un deposito di munizioni nell’area di Popasna

▪️Le truppe missilistiche e l’artiglieria della Federazione Russa hanno colpito 22 posti di comando, tre depositi di munizioni

▪️Il Su-27 ucraino è stato abbattuto dai sistemi di difesa aerea, 7 droni ucraini sono stati distrutti, incl. vicino all’isola del serpente

Dall’inizio dell’operazione speciale in Ucraina, le truppe russe hanno distrutto più di 150 aerei militari ucraini e più di 2.000 carri armati

▪️Le Nazioni Unite e il CICR hanno evacuato circa 500 persone da Azovstal, Mariupol e dai territori adiacenti durante un’operazione congiunta, ha affermato il segretario generale delle Nazioni Unite Guterres

▪️La Russia non intende utilizzare armi nucleari durante un’operazione speciale in Ucraina, ha affermato il ministero degli Esteri russo

▪️I negoziati tra Russia e Ucraina sono in stallo – Ministero degli Esteri russo

▪️ Rappresentante delle forze armate lettoni: ci sono informazioni che Kiev stia pianificando un attacco al ponte di Crimea il 9 maggio

▪️Quasi 200 persone sono morte, più di 400 sono rimaste ferite nel DPR dal 29 aprile al 5 maggio, ha detto il difensore civico locale

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Il 9 maggio, nel Den’ Pobedi, il Giorno della Vittoriala Russia celebra la sconfitta del nazismo del 1945 in quella che i russi chiamano la “Grande guerra patriottica” (1941-’45). Vengono ricordate anche le vittime che furono circa 27 milioni.

Pochi eventi potrebbero unire l’Europa come la vittoria sul nazifascismo. Eppure la sua ricorrenza, celebrata a Mosca il 9 maggio, è diventata negli ultimi anni una commemorazione sempre più della Russia e sempre meno dell’Europa. Che anzi, nella stessa data, preferisce celebrare la dichiarazione Schuman, dunque sé stessa.

I tedeschi firmarono la resa in quella che a Berlino e in gran parte dell’Europa era la tarda sera dell’8 maggio 1945, mentre a Mosca si era già giunti al giorno successivo. Come spiega la rivista di geopolitica Limes – non è solo una questione di fuso orario. A Kiev, dove gli orologi scandiscono le stesse ore della capitale russa, dal 2015 si predilige l’8 maggio per il “Ricordo e la Riconciliazione” e non si parla più di Grande guerra patriottica.

Al centro dei festeggiamenti a Mosca, come vuole la tradizione rispolverata dal presidente Vladimir Putin nel 2008, la parata militare sulla piazza Rossa, occasione per il Cremlino di mostrare i muscoli al mondo e rinfocolare il patriottismo interno, quest’anno ancor di più alla luce della guerra in Ucraina.

Il ministero della Difesa russo ha pubblicato una mappa interattiva della parata, che mostra 33 colonne in marcia di truppe russe, cadetti e membri delle agenzie di sicurezza. La colonna meccanizzata includerà 131 veicoli, tra cui carri armati T-14 Armata e sistemi di difesa aerea S-400. La parte aerea della parata coinvolgerà 77 velivoli, inclusi i bombardieri a lungo raggio Tu-22M3, i caccia Su-57, nonchè elicotteri d’attacco e da trasporto. Dopo la parata militare, da diversi anni si tiene anche l’azione chiamata “Reggimento immortale” in cui migliaia di cittadini, in particolare giovani, sono invitati a sfilare con in mano i ritratti dei nonni che combatterono durante la guerra e oggi non più in vita. Nata come iniziativa dal basso, si è diffusa rapidamente anche tra le comunità di russi all’estero e, nel 2015 a Mosca, vi ha partecipato anche Putin, che ha sfilato con il ritratto del padre.

Secondo il programma diffuso dal ministro della difesa otto MiG-29SMT si alzeranno in volo sulla Piazza Rossa per disegnare in cielo una lettera “Z”, simbolo del sostegno a quella che Mosca da subito ha imposto di chiamare “operazione militare speciale” in Ucraina.

L’altro simbolo della narrativa della Vittoria e della resistenza al nazifascismo è il cosiddetto “nastro (lentochka) di San Giorgio”, nero e arancione, che i russi esibiscono in questo periodo. La lentochka, non a caso, è usata fin dal 2014 anche dai separatisti filo-russi in Ucraina dell’Est, che nella propaganda ufficiale di Mosca da sempre combattono contro “i fascisti di Kiev”.

Il presidente Putin, anche comandante in capo dell’esercito, dopo l’apertura ufficiale della cerimonia guidata dal ministro della Difesa, Serghei Shoigu, terrà il tradizionale discorso dalla tribuna allestita vicino al mausoleo di Lenin tra veterani di guerra, quest’anno senza avere al suo fianco alcun leader straniero.



In questa occasione altamente simbolica il Cremlino ha fatto sapere che non arriverà alcuna dichiarazione di guerra all’Ucraina. E sembra difficile anche che Putin possa dichiarare una vittoria nell’operazione speciale in Ucraina. Si rincorrono però ancora ipotesi su un possibile annuncio riguardante la mobilitazione generale per i russi o l’annessione delle due Repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk e della regione di Kherson.

Quel che appare più probabile agli analisti è che Putin possa far leva sul sentimento patriottico e il mito dell’assedio per compattare la Russia e chiedere ai russi maggiori sacrifici mentre la cosiddetta operazione speciale in Ucraina va avanti insieme alle sanzioni contro l’economia russa.

Sul fronte ucraino c’è molta preoccupazione su cosa possa accadere il 9 maggio: il Consiglio nazionale di sicurezza e Difesa di Kiev ha diramato l’allerta, chiedendo una maggiore attenzione a sirene ed esplosioni di bombe che potrebbero intensificarsi in quel giorno.

Quest’ultimo articolo ripreso da https://www.avvenire.it/mondo/pagine/russia-9-maggio-2022-festa

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Prepariamoci a qualche “sorpresa” lunedì, non da parte di Putin bensì dal governo ucraino.

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Come scoppiano le guerre – quella in Iraq

Diciannove anni fa, con una “fake news”, iniziava l’invasione dell’Iraq.

Il 5 febbraio 2003, a New York, al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, Colin Powell, agitando una fialetta contenente della polvere bianca (antrace), denunciò l’Iraq come produttore di armi di distruzione di massa.

Nello specifico, le sue parole:

<< Quando l’Iraq ammise finalmente di avere queste armi [biologiche] nel 1995, le quantità erano grandi. Meno di un cucchiaino di antrace in polvere, un po’ meno di questa quantità [disse mostrando la fiala] – questo è più o meno un cucchiaino – meno di un cucchiaino di antrace in polvere in una busta fece chiudere il Senato degli Stati Uniti nell’autunno del 2001. Molte centinaia di persone furono costrette a ricevere cure mediche di emergenza e due impiegati degli uffici postali furono uccisi solo a causa di questa quantità, più o meno, chiusa dentro una busta. >>

Powell aggiunse che l’Iraq avrebbe potuto produrre circa 25 mila litri di antrace, secondo quanto dicevano gli ispettori delle Nazioni Unite. Il discorso fu così drammatico ed efficace che anche molti commentatori liberal americani, tendenzialmente sfavorevoli alle politiche dell’amministrazione Bush, ne furono influenzati nel dirsi convinti della realtà del pericolo rappresentato dall’Iraq.

Quel giorno Powell parlò del “grosso faldone dei servizi segreti sulle armi biologiche dell’Iraq” e di laboratori mobili per la produzione di quelle armi, di testimonianze – molti anni dopo si scoprì che il principale autore di quelle testimonianze, un ingegnere chimico iracheno, si era inventato tutto – mentre dietro di lui il direttore della CIA George Tenet seguiva con espressione seria e coinvolta. Powell mostrò su un grande schermo immagini satellitari, grafici e foto che a suo dire provavano l’esistenza di un grande programma di armi chimiche e batteriologiche che sfuggivano al controllo degli organismi internazionali.

Per l’opinione pubblica americana e occidentale, l’antrace ricordava una minaccia che alcuni mesi prima era stata molto concreta, e si ricollegava alle accuse lanciate all’Iraq per tutto l’anno precedente dal presidente Bush in persona.
Tra ottobre e novembre del 2001, cinque persone morirono e altre 17 vennero contagiate da una serie di lettere che contenevano piccole quantità di antrace, negli Stati Uniti appena colpiti dagli attentati dell’11 settembre. L’episodio a cui fece riferimento Colin Powell avvenne il 15 ottobre 2001: una lettera che diceva “Abbiamo questo antrace. Ora sei morto. Hai paura? Morte all’America” – arrivò all’ufficio del leader della maggioranza democratica al Senato, Tom Daschle, dall’altra parte della strada rispetto al Campidoglio in cui si trova il Senato. Fu aperta da un dipendente e cadde una piccola quantità di polvere, dando l’allarme: gli esami sul posto confermarono che si trattava di antrace, la zona venne chiusa e una cinquantina di persone vennero controllate per assicurarsi che non fossero entrate in contatto con le spore. In quelle settimane, controlli e perfino evacuazioni per buste e pacchi postali sospetti avvennero in Germania, in una scuola francese, negli uffici di un giornale a Vilnius, capitale della Lituania, al parlamento canadese e a Melbourne, in Australia. Ma la paura si estese a falsi allarmi in molti altri luoghi del mondo.

Nei giorni successivi alla lettera indirizzata a Tom Daschle, alcuni commentatori che non avevano rapporti diretti con il governo Bush – tra cui l’ex direttore della CIA James Woolsey, nominato da Clinton – scrissero che c’era motivo di pensare a un coinvolgimento dell’Iraq nell’organizzazione e nell’esecuzione degli attacchi con l’antrace. Tra chi aderì a questa tesi ci fu anche Richard Butler, il diplomatico australiano che era stato a capo degli ispettori dell’ONU inviati in Iraq (Bush, da parte sua, parlò quasi subito di un possibile collegamento con Osama bin Laden).

A partire dai primi di novembre del 2001, era stato il presidente Bush a collegare più volte gli attacchi dell’11 settembre e quelli con l’antrace agli stessi “nemici dell’America”. Nel tradizionale Discorso sullo Stato dell’Unione del gennaio 2002, Bush fece davanti agli americani in ascolto un riferimento ancora più esplicito: “Il regime iracheno ha tramato per produrre armi all’antrace e al gas nervino per più di dieci anni”. Il concetto era stato ripetuto molto spesso nei mesi successivi e il 3 febbraio 2003, due giorni prima del discorso di Powell, Bush disse che gli USA avrebbero guidato una coalizione internazionale per disarmare il regime di Saddam Hussein, nel caso questi non si fosse voluto disarmare da solo.

L’invasione dell’Iraq cominciò il 20 marzo 2003.

Nei mesi successivi si scoprì che gran parte delle informazioni e delle ricostruzioni presentate da Colin Powell davanti ai membri del Consiglio di sicurezza erano false. Non c’erano laboratori mobili né enormi arsenali di armi di distruzione di massa. Molto tempo dopo, nell’estate del 2008, si conclusero anche le indagini sugli attentati all’antrace: l’FBI disse di aver raccolto abbastanza prove da poter dire che il colpevole era Bruce E. Ivins, un microbiologo che lavorava per il governo, che non fu mai processato perché si uccise poche settimane prima dell’annuncio. Nel febbraio 2005, Powell definì il discorso al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – e l’esposizione degli argomenti prodotti dai servizi segreti americani e inglesi – una “macchia” sulla sua carriera.

Fu lui stesso, solo molti anni dopo, a raccontare che quella fu tutta una montatura per accusare il regime di Saddam Hussein e per giustificare un’invasione americana contro il vecchio nemico, lo “Stato canaglia” che era sopravvissuto troppo a lungo.

Secondo l’osservatorio indipendente Iraq body count, le perdite fra la popolazione irachena (“morti violente fra i civili”) fra il marzo 2003 e il settembre 2007 ammontano a una cifra compresa tra 74.427 e 81.114. L’Organizzazione mondiale della sanità è più pessimista, e stima – per il periodo marzo 2003 – giugno 2006 – tra 104.000 e 223.000 morti violente tra i civili iracheni.

L’invasione dell’Iraq scatenò l’instabilità di quella parte del mondo, che ancora oggi miete vittime e fomenta terrorismo internazionale.

La celebre scena di Powell al Consiglio di Sicurezza dell’ONU fa da eco a uno dei più misteriosi e intricati scandali della storia contemporanea, quello del “Nigergate“.

Nel 2002 gli Stati Uniti, già da un anno impegnati nella guerra contro l’Afghanistan, accusarono l’Iraq di aver siglato un accordo con il Niger per l’acquisto di 500 tonnellate di uranio al fine di poter realizzare una bomba atomica.

Le accuse furono mosse dopo che la CIA ricevette un documento secretato proveniente dall’ambasciata del Niger di Roma dove venivano riportati i dettagli del presunto accordo tra i due Paesi.

Il 28 gennaio 2003, una settimana prima del celebre discorso di Powell all’ONU, George W. Bush pronunciò la famosa frase delle sedici parole:

“Il governo britannico ha affermato che Saddam Hussein ha recentemente acquistato quantità significative di uranio dall’Africa.”

Anche in questo caso però le accuse mosse dagli Stati Uniti si rivelarono del tutto false e nel 2005, Bush, arrivò a dire a Silvio Berlusconi che in realtà gli USA non erano mai stati in possesso di alcun dossier dall’Italia sulla questione Niger-Iraq.

Colin Powell è invece deceduto nel 2021 a causa di alcune complicanze dovute all’infezione da Covid-19.

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Domenica 8 maggio a Roma

IL REGGIMENTO IMMORTALE A ROMA

L’Unione Sovietica è il paese che ha dato il contributo maggiore alla sconfitta del nazismo durante la Seconda Guerra Mondiale. Al prezzo di 27 milioni di morti, l’URSS nell’aprile 1945 ha conquistato Berlino, mentre gli anglo-americani erano ancora molto lontani dalla città.
Il tributo di sangue e l’apporto militare sovietico alla liberazione dell’Europa dal nazi-fascismo non ha eguali.
Il giorno dell’effettiva resa del Terzo Reich è il 9 maggio, data in cui si organizzano parate militari in seno ai festeggiamenti del “Giorno della Vittoria”: si osannano i veterani, si onorano anche i martiri. Per ovvie ragioni anagrafiche, ormai i veterani sono sempre di meno.

Dal 2012, in tante città della Russia- a margine dei festeggiamenti per la Vittoria e delle celebrazioni in memoria delle vittime, viene organizzato il Reggimento Immortale. Si tratta di una manifestazione civile in cui le nuove generazioni tengono viva la memoria di coloro che hanno combattuto. Di ciò si è particolarmente sentito il bisogno, dal momento che stanno morendo gli ultimi veterani della Seconda Guerra Mondiale.

Durante il Reggimento Immortale i parenti dei caduti portano il ritratto o la fotografia dei propri cari, i quali, simbolicamente, marciano uniti insieme ai vivi. Il senso è pertanto sia di ricordare chi ci ha dato la libertà, sia di passare alle nuove generazioni il testimone della memoria.
Il Reggimento Immortale si celebra in più di 80 paesi del mondo, ma con particolare partecipazione nello spazio post-sovietico. Oggi più che mai è importante celebrare il Reggimento Immortale, tenere viva la memoria di chi ha combattuto il male e non fare nemmeno un passo indietro di fronte al nazismo che è tornato ad ammorbare alcune parti d’Europa.

A Roma l’appuntamento è per domenica 8 maggio alle ore 11:00 in Piazza San Giovanni. L’invito a partecipare è per tutti coloro che tengono alto l’orgoglio della storica impresa sovietica e il ricordo dei propri eroi, caduti per salvare il mondo dalla peste bruna.
Per via della natura commemorativa dell’evento saranno ammessi i simboli storici e bandiere degli ex paesi sovietici, mentre non saranno tollerati simboli di alcun partito.

Comitato Organizzatore del Reggimento Immortale

Da un post di Alberto Fazolo – Nato a Roma nel 1979, Fazolo è economista, giornalista, scrittore e attivista politico. Ha vissuto due anni nel Donbass, dal 2015 al 2017, Regione che in questo momento è più che mai al centro delle cronache internazionali.  Nel corso della sua carriera, Fazolo ha scritto libri sulla situazione che l’Ucraina sta vivendo dal colpo di stato del 2014 quando fu estromesso dal suo incarico Viktor Janukvich. Fazolo si è recato nel Donbass e ha documentato la resistenza delle popolazioni locali contro le milizie che si rifanno chiaramente al nazismo e al fascismo. Il suo libro più famoso è “In Donbass non si passa. La resistenza anifascista alle porte dell’Europa”.

P.S.:

La polizia ha approvato la manifestazione del reggimento immortale a Berlino, ma con il divieto del nastro di San Giorgio, hanno detto gli organizzatori.

(Ricordiamo che il nastro di San Giorgio è il simbolo della vittoria russa sui nazisti).

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Fatti di Storia

Tra Banderisti Ucraini (oggi al potere con l’appoggio della Nato) e Nazionalisti Lituani si fa a gara a chi si è macchiato più di orrori:

Qui le gesta dei Banderisti Ucraini:

https://it.wikipedia.org/wiki/Esercito_insurrezionale_ucraino

Qui i Nazionalisti Lituani negli stessi anni:

https://it.wikipedia.org/wiki/Olocausto_in_Lituania

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E vorrei ricordare di nuovo:

Il fotoreporter italiano, Giorgio Bianchi, è stato iscritto insieme ai suoi familiari nella lista nera ucraina da tenere sotto controllo e gli hanno vietato l’ingresso in alcune zone dell’Ucraina. La stessa sorte è toccata anche al giornalista Franco Fracassi. Sono iscritti in queste liste nere non da ora, ma da quando hanno cercato nel 2014 di riportare la strage russofona, compiuta dai nazi(onali)sti ucraini, nel Dombass. E chi uccise il giornalista Andrea Ronchelli, anch’egli iscritto in questa lista nera? Sempre loro, i Nazi(onal)sti… la Rai poi ne ha parlato: https://www.raiplay.it/video/2022/02/Spotlight–La-disciplina-del-silenzio-Inchiesta-sulla-morte-di-Andrea-Rocchelli-e-Andrej-Mironov-89456a9f-20e4-4448-903c-9038d42eb503.html

E guardate con chi ha relazioni interparlamentari la reppublica italiana, oltre a rivestire, questo soggetto, il ruolo di deputato…

“Ad otto anni dalla morte di Andy Rocchelli e Andrej Mironov, uccisi a colpi di mortaio nel Donbass mentre stavano facendo il loro lavoro di giornalisti, emergono le dichiarazioni di alcuni ex militari ucraini che raccontano una nuova verità su quei drammatici fatti. Dopo anni di indagini e processi, la giustizia italiana ha assolto l’unico imputato per vizi di forma, ma ha stabilito una verità importante: che ad aprire il fuoco con i mortai fu un reparto dell’esercito ucraino, la 95a Brigata Aviotrasportata. Oggi alcuni ex soldati di quella unità hanno accettato di parlare e confermano la ricostruzione della magistratura. Il comandante della 95a Brigata era Mykhailo Zabrodskyi, secondo uno dei testimoni avrebbe dato personalmente l’ordine di sparare contro i reporter. Nella seconda puntata l’inchiesta “la disciplina del silenzio”, si concentra nella ricerca di conferme al racconto del testimone. Altri ex militari aggiungono nuovi elementi e confermano la versione secondo la quale Zabrodskji avrebbe dato personalmente l’ordine di fare fuoco.

Lo stesso Mikhailo Zabrodkij, l’ex comandante di Karachun, che oggi è deputato presso il parlamento ucraino e membro del gruppo per le relazioni interparlamentari con la repubblica italiana, in una intervista concessa a Spotlight, pur respingendo ogni addebito, ha dichiarato di non poter smentire né le ricostruzioni certificate dalla giustizia italiana né le parole dei testimoni. Ed ha ammesso che tutte le forze presenti a Karachun – compresi gli uomini della Guardia Nazionale – erano sotto il suo comando. Inchiesta di di Andrea Sceresini e Giuseppe Borello”.

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Andrea Rocchelli era un fotoreporter freelance professionista che stava documentando le atrocità commesse dal governo golpista ucraino contro la popolazione civile. È infatti bene precisarlo, dato il complice silenzio degli organi di informazione in questi anni; nel febbraio 2014 il paese subì un colpo di stato organizzato dagli Stati Uniti: non possiamo dimenticare le dichiarazioni dell’ex assistente del segretario di Stato Victoria Nuland che, già nel dicembre 2013, aveva annunciato i “5 miliardi di dollari” spesi dagli Stati uniti per assicurare all’Ucraina “il futuro che meritava”; o le rivelazioni dei cecchini Georgiani che intervistati dalla BBC e dall’agenzia di stampa Interfax dichiararono di essere stati reclutati da un membro del governo Usa per sparare sui manifestanti e sui poliziotti.

Non possiamo infine dimenticare il voto incostituzionale che il parlamento ucraino espresse per considerare vacante la poltrona del presidente eletto Yanukovich, sostituito frettolosamente da Oleksandr Turčynov; fattore che avrebbe posto le fondamenta per la costituzione di una forza di governo composta da ministri dichiaratamente nazisti.

Il partito di estrema destra Svoboda, il cui leader Oleh Tyahnybok aveva affermato limpidamente di voler “estirpare dall’Ucraina tutta la feccia russa, tedesca e giudea”, era entrato nell’esecutivo ottenendo vari ministeri: da quello della Difesa a quello dell’Agricoltura passando poi per la posizione di vice primo ministro, assegnata a Oleksandr Sych e quella di Procuratore Generale.

Sono questi nostalgici di Hitler che hanno imposto immediatamente l’eliminazione del russo come lingua ufficiale mentre si dichiaravano favorevoli all’imposizione del divieto di essere “comunisti”, alla creazione di un arsenale nucleare ucraino, con annessa adesione alla Nato esclusivamente in funzione anti-russa.

Sono stati questi nazisti, assieme alle squadracce di Pravy Sector, ad essere fautori di soprusi e violenze contro oppositori politici e veri e propri pogrom contro la popolazione Russa, come quello avvenuto alla casa dei sindacati di Odessa, dove decine e decine di russi vennero bruciati vivi, strangolati o freddati con un colpo di pistola alla testa.

Furono questi crimini a decretare le rivendicazioni separatiste dei popoli a maggioranza russa di Donec’k, Luhans’k, Dnipropetrovs’k: premessa della sanguinosa guerra nell’est dell’Ucraina, avviata dal governo centrale.

È esattamente in questo contesto che Andrea e Mironov sono stati trucidati da colpi di mortaio, mentre documentavano i danni dei bombardamenti delle truppe filo-governative ucraine.

Solo 5 giorni prima, il 19 maggio 2014 sulle pagine del giornale russo “Novaya Gazeta” veniva pubblicato l’articolo “Noi non siamo bestie. Non bisogna avvolgerci con il filo spinato!”, firmato da Andrei Mironov e Andy Rocchelli con le foto dei bambini nel seminterrato scattate da Andy che sono diventate subito famose nel paese.

Per l’omicidio nel 2017 viene arrestato un militare ucraino, Vitaly Markiv, che verrà condannato in 1° grado a 24 anni di reclusione nel luglio 2019. Nel maggio 2014, il plotone, di cui Markiv era il vice comandante, aveva assunto posizioni di combattimento sul monte Karachun, poco distante dalla posizione dei due fotoreporter.

Ad incastrarlo, oltre alle foto di svastiche, torture, stupri e sevizie sul suo telefono, a testimonianza dei crimini di guerra delle milizie naziste filo-governative ucraine, c’era il ruolo avuto, come esposto nelle motivazioni della sentenza, di “capo postazione in funzione di avvistamento” che segnalava “i movimenti sospetti di eventuali soggetti in avvicinamento alla collina mediante la ricetrasmittente che aveva in dotazione”. Era dunque l’unico “in grado di monitorare gli spostamenti e fornire le coordinate agli addetti ai mortai per consentire loro l’aggiustamento del tiro”.

Nelle intercettazioni telefoniche Marvik non manca di precisare: “Una persona arriva nella Savana e la guida gli dice: non andare lì c’è il leone, rischi che ti mangi. La persona decide da sola sì ci vado, no non ci vado. Se lei è andata e un leone l’ha mangiata che fate, portate il leone in tribunale?”.

Con la sentenza di condanna è partita una campagna minatoria e di delegittimazione senza precedenti, caratterizzata da insulti e minacce ai danni della Famiglia Rocchelli, della Federazione Nazionale della Stampa, che al processo si era costituita parte civile, e della Magistratura italiana, fino al clamoroso giudizio della Corte d’Appello di Milano che pochi giorni fa ha assolto Markiv dall’accusa dell’omicidio di Andrea Rocchelli, per non aver commesso il fatto.

A contribuire nell’esito della sentenza, oltre al fatto che i suoi superiori, che avevano confermato la posizione del militare sulla collina, avrebbero dovuto essere sentiti non come testimoni, ma come possibili complici, c’è probabilmente la ritrascrizione di un’intercettazione ambientale del 1° luglio 2017 nella quale l’imputato avrebbe dichiarato: “È stato fottuto un reporter ma vogliono cucirmi addosso tutto” anzichè “abbiamo fottuto un reporter”, come era riportato precedentemente.

Particolare inquietante, a questo proposito, è rappresentato dalle minacce ricevute dall’interprete dopo l’udienza dell’8 febbraio 2019 del processo di primo grado a Pavia, trasmesse a verbale dalla Corte fuori udienza: nelle telefonate minatorie l’interprete avrebbe ricevuto pressioni affinché cambiasse la trascrizione fedele delle intercettazioni ambientali. Il 9 dicembre 2021 l’ultimo verdetto sarà confermato dalla Cassazione.

Lo Stato ucraino (che non ha mai collaborato seriamente con le autorità giudiziarie italiane), per bocca del Presidente Volodymyr Zelens’kyj, non ha mancato di complimentarsi in un post su facebook con il Presidente della Repubblica e con il Capo del Governo italiani per l’esito del processo di secondo grado e quindi dell’assoluzione e liberazione della guardia nazionale Vitaly Markiv. Ad aggiungersi a questo sinistro teatrino, hanno contribuito i complimenti da parte dell’allora ministro degli interni Arsen Avakov, il cui consigliere Anton Gerashchenko promuove un sito curato dall’agenzia governativa d’intelligence ucraina (SBU), Myrotvorets, in cui sono schedati tutti coloro che il governo dell’Ucraina considera terroristi, nemici dello Stato. Ebbene in questo portale figurano anche Andrea e Andrej, con i loro dati, e con una scritta in cirillico rossa sopra le loro foto: “Liquidati”.

Ed ecco le ultime rivelazioni: nel 2014 un soldato della 95a Brigata (che in un recente articolo su l’Espresso viene chiamato Sergej), faceva parte della “rozvedrota”, la squadra delle sentinelle con il compito di osservare il territorio, come dimostrato da alcune foto che lo ritraggono nella sua trincea di Karachun in una posizione esattamente frontale rispetto al luogo dove sono stati uccisi i reporter.

“Non so perché il nostro comandante abbia dato l’ordine di sparare. Non c’erano state provocazioni e quegli uomini erano vestiti in abiti borghesi, non rappresentavano una minaccia per noi” ha affermato davanti alle telecamere.

In seguito entra più nel dettaglio e rivela che per uccidere Andrea e Mironov vennero adoperati i Vasilek, mortai automatici che possono esplodere raffiche di quattro colpi. “Non avevamo mai sparato con tanta intensità in quella esatta direzione”, racconta Sergej.

Una dinamica che coincide perfettamente con le ricostruzioni dei magistrati e con quella del reporter sopravvissuto all’attacco, William Roguelon che ha specificato come Il Vasilek spari proiettili calibro 82, e “i miliziani separatisti accorsi sul posto all’indomani dell’attacco hanno sempre sostenuto che le schegge da loro rinvenute erano proprio di quella misura.”

Tipologia di mortai il cui utilizzo è stato confermato anche dal comandante della Guardia Nazionale Andrej Antonishak, la cui intervista era stata pubblicata nel 2021 in un pamphlet innocentista dal titolo “Vitaly Markiv”.

Curioso come la tesi di fondo del testo sostenga che Andy e Andrej siano stati uccisi dai filorussi con la “Nona”, un cannone da 122 mm che tuttavia non è in grado di sparare raffiche di 4 colpi come il Vasilek. Una verità tutta da riscrivere insomma; una vicenda costellata da contraddizioni, omissioni, depistaggi e silenzi che pongono sul banco degli imputati gli autori di efferati crimini contro la popolazione russa di Ucraina: una guerra che perdura tuttora e che oggi rischia di innescare un conflitto su larga scala in Europa. Un’eventualità che impone oggi più che mai l’esigenza di non “liquidare” dalla nostra memoria martiri come Andrea Rocchelli (in foto).

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