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Analisi critica di Zory Petzova

Un altro luogo comune da sfatare è che il conflitto in Ukraina sia espressione di uno scontro di civiltà, dove da un lato abbiamo l’atlantismo democratico-progressista, simboleggiato e difeso dall’Ukraina, mentre dall’altro l’assolutismo euroasiatico conservatore, rappresentato dalla Russia. Per mantenere questa narrazione, il mainstream accademico/mediatico cerca di attribuire ed enfatizzare, e a volte ad inventate, presunte differenze e incompatibilità culturali fra i due schieramenti. Questa contrapposizione, che non è altro che l’ennesimo schema duale applicato su macro-scala, segue la teoria dell’influente politologo americano Huntington (The Clash of Civilizations), secondo cui, con la fine della Guerra fredda, gli Stati del mondo sarebbero passati dall’immobilità del bipolarismo politico e ideologico, imperniato sugli Usa e l’Urss, a una situazione molto più dinamica e mutevole, dove i conflitti, caratterizzati da maggiore frequenza e violenza, si sarebbero verificati proprio sulla linea delle divergenze culturali, e dove sarà sempre più la cultura, e non la politica e gli Stati, il luogo dello scontro. Quindi, secondo Huntington, le nazioni occidentali potrebbero perdere il loro predominio sul mondo qualora non fossero in grado di riconoscere la natura inconciliabile di questa tensione. Da parte nostra, da lettori e testimoni, è doveroso costatare come la teoria di uno dei massimi esperti di relazioni internazionali fosse faziosa e poco fondata sulla reale conoscenza dei popoli, e che attualmente l’unica utilità di tale teoria è dare alibi ai conflitti militari in corso, spiegandoli attraverso l’incompatibilità culturale delle parti in gioco. Huntington, non essendo più in vita, non potrà smentire la propria tesi, ma la storia recente ha dato palesemente più ragione al suo collega e opponente Fukuyama.

Il politologo statunitense dal nome giapponese prevedeva che il crollo del Muro di Berlino avrebbe dato l’inizio dell’imporsi di un unico modello politico-economico su scala globale, ossia il modello liberal-democratico occidentale, fondato sui diritti dell’uomo, che avrebbe superato la devianza dei totalitarismi precedenti e decretato la fine dell’evoluzione della storia, in quanto nulla di nuovo sarebbe immaginabile dopo l’apice di uno sviluppo che si mostra ottimale per tutti gli Stati e individui. Possiamo dire che, effettivamente, nulla sarebbe più auspicabile per i popoli del modello democratico-liberale, ed è ciò verso cui tendono spontaneamente tutti gli individui, solo che l’errore iniziale di Fukuyama è stato di aver sopravaluto la buona fede di governanti ed élite, in quanto questi hanno effettivamente converso verso l’instaurazione di un unico modello di Stato, solo che non quello liberal-democratico, bensì un modello inedito, tendente verso un totalitarismo tecnocratico ibrido, che lo stesso Fukuyama preannuncia nei suoi saggi successivi, smussando l’iniziale entusiasmo.

Dopo la caduta del Muro di Berlino, ciò che si verifica fra la Russia e l’Occidente, arricchito delle nuove acquisizioni degli ex paesi di regime, non è uno scontro fra diverse matrici culturali, ma un ripristino della storica unità culturale, nella cui la Russia e l’Europa sono non solo speculari, ma difficilmente separabili nelle influenze e le rivendicazioni culturali. Dall’inizio del modernismo non esiste alcuna linea di confine culturale, tanto è che diverse fra le più importanti scuole e correnti – come il futurismo, il costruttivismo, il genere fantascientifico nelle sue varie declinazioni, il realismo collettivista, l’arte e la grafica industriali e di propaganda – nascono nella società russa o sovietica, per influenzare quasi simultaneamente quella europea; per non parlare poi della produzione letteraria e musicale, sia quella classica che quella post rivoluzionaria, che determina i criteri e i modelli più alti di tutta la cultura europea. Il contagio culturale fra Europa e Russia è bidirezionale, in quanto il pionierismo non ha una patria nazionale o geografica ben definibile, e anche su livello tecno-scientifico russi e occidentali sono perfettamente compatibili, interscambiabili e cooperanti da secoli, uniti nei programmi spaziali, dove sarebbe difficile, anche se auspicabile, trovare qualche sostanziale differenza d’approccio.

Oggi, per mantenere in vita la retorica pompata dello scontro culturale, si gioca la carta della religione, dove alla Russia viene attribuita la rinascita delle tradizioni e dei valori cristiano-ortodossi, in contrapposizione alla mentalità progressista e tecno-scientista dominante nell’Occidente e sbandierata perfino dal Vaticano. Come simbolo del neo-conservatismo religioso russo viene presentato il filosofo Alexander Dugin, battezzato persino come l’ideologo di Putin (un dato largamente smentito), ma lo stesso fatto che Dugin sia conosciuto molto più in ambienti culturali europei che in patria, è la prova lampante della faziosità di tale contrapposizione culturale. Oltre ad essere fautore del panslavismo – una bizzarra ideologia nazionalista fondata più su un paganesimo sciamanico che sul cristianesimo ortodosso, Dugin ha una bassa popolarità in Russia, confermata da una percentuale vicina allo zero degli elettori del suo partito. L’ala dell’estrema destra russa, verso cui graviterebbe la sua piattaforma ideologica, è speculare a un qualsiasi movimento di destra radicale di matrice europea. La Russia è un paese con abbondante proliferazione e varietà di movimenti e organizzazioni politiche ed ideologiche, e presentare come sua caratteristica culturale qualcosa che raccoglie una bassissima percentuale di questa varietà è piuttosto fazioso e manipolatorio. Lo stesso Putin, pur apparendo in immagini-status di ritualità religiosa, è un leader alquanto pragmatico e razionale, scevro di ogni ridondanza religioso-escatologica, né più né meno di un qualunque altro governante europeo che rispetta le ricorrenze religiose della propria tradizione.

Un altro tema su cui è stata investita tantissima propaganda mediatica, ai fini di persuadere l’opinione pubblica sul presunto abisso culturale fra l’Occidente e la Russia, è quello delle libertà sessuali e l’ideologia LGTB, laddove Putin e il governo russo vengono additati come acerrimi nemici dell’omosessualità. Nulla di più falso di questo. Lo stesso Putin ha dovuto specificare più di una volta, non senza un certo imbarazzo, che l’omosessualità è altamente tollerata in Russia, persino nell’esercito, ma ciò che viene vietato è la diffusione dell’ideologia gender e le manifestazioni di gay pride, per non traumatizzare precocemente lo sviluppo sessuale degli adolescenti. Strano che nessun media occidentale abbia mai informato il proprio pubblico sul fatto che la società russa misurasse una percentuale piuttosto alta di omosessualità, e che i più grandi e frequentati club e discoteche per incontri promiscui ed omosessuali sul territorio europeo si trovano proprio a San Pietroburgo. Attribuire poi a una società post comunista bigottaggine e puritanesimo sessuale è piuttosto da ignoranti, visto che il regime sovietico già per sua costituzione non ha mai applicato alcuna normativa di repressione sessuale, ma è stata proprio la caduta del regime a sdoganare ogni residuo di tabù. Un certo tradizionalismo patriarcale può essere riconosciuto alle popolazioni russe di religione musulmana, ovviamente, ma tali diversità culturali sono strutturali a tutte le società occidentali. Quello che desta sospetto è che una problematizzazione piuttosto innaturale e forzata delle tematiche sessuali e di libertà di genere nell’Occidente mirasse a creare un maggior contrasto con la società russa, ma tale contrasto non sussiste, se non nel mero esibizionismo di spettacolarizzazione pubblica delle tendenze gender, per cui dovremo chiederci a chi e a quale scopo serve trarre in inganno la pubblica opinione degli europei.

Anche sul tema del nazionalismo si gioca la stessa finta separazione fra russi e occidentali. Eppure, il conflitto bellico è servito proprio a dimostrare come tutte le società moderne siano uguali, perché nel momento in cui il governo russo ha convocato in servizio i riservisti, fra i cittadini russi si è verificata una vera e propria fuga dal paese, come è accaduto anche in Ukraina, e come sarebbe accaduto in qualsiasi altro paese europeo, al netto della criminale imposizione della legge marziale. In Russia non esiste alcun patriottismo e amore di patria tali da convincere i giovani a sacrificare la propria vita in guerra, perché i valori del passato, quelli del coraggio e la fierezza di difendere la propria nazione, sono stati sostituiti dai valori della cultura consumistica, quella che giustamente desidera un’esistenza pacifica, gratificante e ricca di stimoli edonistici, cultura investita da comunità virtuali che usano gli stessi social network, ascoltano la stessa musica e ammirano le stesse icone di successo. Quali sarebbero le insormontabili differenze culturali e politiche che secondo Huntington avrebbero dovuto portare allo scontro fra la Russia e l’Occidente? Si tratta solo di propaganda, quando in realtà i motivi dei conflitti sono ben diversi. Per dovere di cronaca, bisogna ricordare che gli Stati Uniti sono stati il primo esempio di passaggio da un esercito di leva a un esercito professionale, dopo le numerose vittime della folle guerra in Vietnam, quando i giovani hanno iniziato a rinunciare dal dover combattere dall’altra parte del mondo per non si sa quale ideale. Oggi le enormi diseguaglianze fra élite e ceti comuni dovrebbe disincentivare ulteriormente il reclutamento militare: gli uomini comuni non sono più disposti a morire per governanti corrotti e privi di qualità umane. Solo società fortemente fanatizzate su base religiosa o ideologica possono registrare una militarizzazione di leva alta, e uno dei paesi più militarizzati attualmente (oltre l’anomalo caso ucraino di ingegneria sociale) è proprio l’Israele. È Israele il paese in maggior contrasto con la cultura pacifista dei popoli europei, e non la Russia. Il fatto che in Russia l’esercito privato di Wagner si stia sostituendo a quello nazionale di leva è indicativo del crescente astensionismo militare e di un nuovo spirito anarchico che non vuole più assoggettarsi al volere dei governanti.

Proprio per questi motivi i governanti dei paesi egemoni sono sempre più solidali e sintonizzati fra loro, pur sfidandosi apparentemente in guerra. La guerra è il motivo più formidabile per spostare denaro pubblico verso il settore militare-industriale e il personale degli eserciti professionali, i quali ad occorrenza potranno essere usati contro le popolazioni civili. Il militarismo non può accontentarsi dei nemici esterni, ma necessita anche di nemici interni, perché altrimenti non riuscirebbe ad ammortizzare i crescenti investimenti in nuove e sempre più sofisticate tecnologie. Alla fine, non possiamo non riconoscere l’infallibilità dello sguardo visionario di Fukuyama, solo che bisogna parafrasare la sua stessa logica più crudamente, senza troppi eufemismi concettuali: gli interessi del capitale, l’affarismo, il lobbying corporativo, a prescindere se di natura pubblica o privata, se di mercato o di Stato, se legali o illegali, dominano ovunque su scala globale, e nulla è in grado di frapporsi alla marcia del denaro, nessuna politica e nessun diritto. La corsa della storia è accelerata e unidirezionale, similmente a una macchina lanciata in avanti senza le dotazioni di sterzo, freno o retromarcia. Ne è stata una eclatante conferma l’emergenza pandemica, a cui la Cina, la Russia e l’Occidente hanno aderito a pari merito di estremismo e in piena complicità cospirazionista, mentre diversi paesi minori si sono distinti con inaspettato buon senso ed onestà professionale. Al vertice di Bali del G20, il discorso di Lavrov suona uguale a quello dei fanatici di Davos, con l’attestazione del pieno riconoscimento della sovranità istituzionale dell’OMS, alla quale viene preventivamente affidata ogni futura decisione in materia sanitaria. La legge della numerazione degli individui (sostitutiva del nome) e quindi della digitalizzazione di massa in Russia, con la rispettiva esclusione sociale dei non omologati, è del 2016 e precede qualsiasi iniziativa programmatica e giuridica europea in questa materia, così come il sistema di credito sociale cinese precede largamente quello abbozzato per la società occidentale dall’Agenda 2030.

La Cina e la Russia non sono i nemici dell’Occidente, ma i suoi partner più vitali e la conferma del fatto che le differenze culturali non sono tanto geografiche quanto interne, sono quelle fra i popoli e le loro élite, e che senza la possibilità di controllo dal basso tutti i governi attuali, in particolar modo quelli di vocazione oligarchica e guerrafondaia, sono ugualmente illegali.

(di Zory Petzova)

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Addio Ratzinger

[Ratzinger, la parola “anima” non c’era nel nuovo messale romano]

Un libro importante del 1977, Escatologia, rivisto dall’autore Joseph Ratzinger-Benedetto XVI nel 2006, quando ha impreziosito la riedizione con una aggiornata Premessa atta a spiegarne il lungo percorso. Leggiamo un passo dalla Premessa perché ci aiuterà a come interpretare e leggere il capitolo che andremo ad approfondire, inoltre veniamo così informati della grave crisi teologica interna alla Chiesa, inoltrandoci anche nella comprensione della nascita e sviluppo dell’enciclica di Benedetto XVI la Spe Salvi, i cui concetti restano gli stessi a fronte di una teologia sull’anima da riscoprire, rivalutare e ritornare ad insegnare.



Dalla Premessa

Dalla prima edizione del volume sono passati 30 anni e nel frattempo il cammino della teologia non si è fermato. Nel momento in cui il libro fu scritto, due profondi capovolgimenti stavano coinvolgendo gli sviluppi riflessivi riguardo al tema della speranza cristiana.

La speranza veniva compresa come virtù attiva, come azione che cambia il mondo, azione dalla quale sarebbe scaturita una nuova umanità, un “mondo migliore”. La speranza divenne in tal modo politica, la sua realizzazione sembrava essere affidata all’uomo stesso.

Il regno di Dio, attorno al quale tutto il cristianesimo ruota, sarebbe diventato il regno dell’uomo, il “mondo migliore” di domani: Dio non sta “in alto” ma davanti… (..)

La crisi della tradizione, che nella Chiesa Cattolica assunse toni virulenti in corrispondenza del Vaticano II, portò all’esigenza di strutturare la fede partendo esclusivamente dalla Bibbia, prescindendo dalla tradizione. Si concluse allora che nella Bibbia non si trovava il concetto dell’immortalità dell’anima, ma solo la speranza della risurrezione.

“L’immortalità dell’anima” doveva essere congedata come platonismo, si era sovrapposta, dunque, alla fede biblica della risurrezione. Grazie ad una curiosa filosofia che stabiliva l’impossibilità della presenza del tempo al di là della morte, si spiegò che la risurrezione doveva avvenire nella morte stessa.

Questa teoria ha conquistato velocemente anche il linguaggio della predicazione, tanto che in molti luoghi la celebrazione di preghiera per un defunto è stata chiamata “cerimonia della risurrezione”.

Nella mia “Escatologia” mi ero confrontato con entrambe le correnti, senza dimenticare i temi importanti per un manuale, temi di tutta la Tradizione del credere, sperare, pregare, temi di cui la storia della Chiesa è ricca.

Per quanto riguarda il primo tema, mi sembrava importante che l’escatologia non si lasciasse ridurre a nessun tipo di teologia politica. Ho ritenuto di potermi limitare all’essenziale dando un’indicazione del problema e ho cercato di evidenziare il significato permanente della speranza nell’azione propria di Dio entro la storia, azione che sola concede all’agire umano la propria unità interna e trasforma dall’interno ciò che è transitorio in ciò che non passa.

Ma un confronto più preciso con la questione della risurrezione “nella morte” era indispensabile; tale confronto costituisce il contenuto del cap. 5 di questo libro.

È legittimo prima di tutto riconoscere come la Bibbia non proponga alcuna concettualità antropologica con valore conclusivo, piuttosto essa si giova di svariati modelli concettuali.

È giusto inoltre ammettere come per la Bibbia il concetto centrale di speranza significhi “risurrezione”. Ma è altrettanto sicuro che la Bibbia non conosce l’idea di una risurrezione “nella morte”, anzi la respinge espressamente (leggasi 2Tim.2,18). Essa conosce piuttosto l’ “essere presso il Signore” tra la morte e la risurrezione. (cfr. per esempio Fil.1,23).

Io avevo cercato di tratteggiare come l’elaborazione di una concettualità antropologica mediante il ricorso alla formula di corpo e anima, secondo cosa è avvenuto nella tradizione ed è stato dichiarato nel concilio di Vienna (DH902), sviluppasse in maniera appieno conforme il dispositivo dell’antropologia biblica.

Su questo punto è sorta in seguito al mio libro una vivace discussione,nella quale la mia posizione fu contrassegnata semplicemente come difesa del platonismo.

In ambedue le appendici alla sesta edizione ho cercato di prendere posizione in modo dettagliato riguardo a simile discussione e ho pure ravvisato in modo riconoscente le riprese e le conciliazioni che ne derivavano, arricchendo con ciò il nostro pensiero circa le “ultime cose”. (..)

Non vorrei ancora una volta intercettare qui l’intera controversia, anche se desidero ribadire ancora una volta quale era e qual è tuttora per me la cosa più importante.

Innanzitutto non è una questione di concettualità o di “platonismo” ma di una concezione strettamente teo-logica della nostra vita oltre la morte – della nostra “vita eterna”, nel senso dell’insegnamento di Gesù.

Noi viviamo dunque poiché siamo associati alla memoria del Signore. Nella memoria del Signore noi non siamo un’ombra, un semplice “ricordo”, stare nella memoria del Signore significa “esserci”; vivere, vivere in pienezza, essere del tutto noi stessi.

(…)

Roma – Festa di Tutti i Santi 2006 – Joseph Ratzinger – Benedetto XVI

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“La mia opera meglio riuscita”, ebbe a dire Ratzinger, e chi ha letto il testo non può che fargli da eco soprattutto per la capacità che egli ha avuto di denunciare un così grave decadimento teologico e dottrinale interno alla Chiesa, a riguardo dell’anima.



dal Cap. V — Immortalità dell’anima e resurrezione dei morti

1. La problematica

L’interrogativo che negli ultimi decenni è sorto nella tematica dell’immortalità dell’anima e della risurrezione, trasformando gradualmente l’intero panorama della teologia e della religiosità, non potrebbe essere formulato più sinteticamente e più drammaticamente di quanto lo ha fatto Oscar Cullmann, il quale si è espresso come segue: “Domandate a un cristiano, protestante o cattolico, intellettuale o no, che cosa insegni il Nuovo Testamento sulla sorte individuale dell’uomo dopo la morte, e, salvo pochissime eccezioni, avrete sempre la stessa risposta: l’immortalità dell’anima. Eppure questa opinione, per diffusa che sia, è uno dei più gravi fraintendimenti che riguardano il cristianesimo” (Unsterblichkeit, p.19).

Ebbene, oramai soltanto ben pochi azzarderebbero questa risposta allora ovvia, poichè l’opinione che essa sia un malinteso si è diffusa con sorprendente rapidità tra le comunità cristiane, senza tuttavia che si fosse potuto sostituirla concretamente con una nuova risposta. Pionieri di questo nuovo atteggiamento furono i teologi protestanti Carl Stange (1870-1959) e Adolf schatter (1852-1938), ai quali aderì ampiamente Paul Althaus, con la sua “Eschatologie” pubblicata nel 1921 in 1° edizione.

Rifacendosi alla Bibbia e a Lutero, si rifiutava come dualismo platonico il concetto di una separazione nella morte tra il corpo e l’anima qual è presupposta nella dottrina dell’immortalità dell’anima e si affermava che l’unico insegnamento biblico è quello che l’uomo perisce nella morte “con corpo e anima” e che soltanto così si conserva il carattere di giudizio e della morte, di cui la Bibbia parla con estrema chiarezza. Di conseguenza, non sarebbe cristiano parlare dell’immortalità dell’anima, ma si dovrebbe parlare unicamente della risurrezione dell’uomo intero e contrapporre alla religiosità corrente del morire e alla sua escatologia del cielo l’unica prospettiva della speranza cristiana, cioè quella dell’ultimo giorno.

Nel 1950, Althaus tentò di apportare alcune rettifiche a questa tesi, che nel frattempo si stava diffondendo rapidamente, e obiettò che anche la Bibbia conosce lo schema “dualistico”, che anch’essa non conosce soltanto l’attesa dell’ultimo giorno, ma una sorta di speranza individuale in un cielo futuro. Egli cercò di dimostrare che questa opinione era stata pure condivisa da Lutero. “L’escatologia cristiana – così si esprimeva – non ha dunque da combattere l’immortalità come tale. Lo scandalo che recentemente abbiamo dato più volte con questo nostro atteggiamento non è lo scandalo dell’Evangelo” (Retraktationem, 256).

(Naturalmente Ratzinger non è d’accordo e tenta dei chiarimenti con una denuncia molto grave, ndr.)

Benché nelle discussioni d’allora avessero trovato larghi consensi, queste affermazioni non avrebbero assunto grande importanza per quanto riguarda la discussione successiva. L’opinione che parlare dell’anima non sia un discorso biblico, s’impone al punto che perfino il nuovo Missale Romanum del 1970 ha bandito il terminus “anima” dalla liturgia dei Defunti; parimenti esso è scomparso dal rituale della sepoltura…. (confermò in altro discorso il cardinale Ratzinger che della notizia all’epoca ne fu preoccupatamente “sconvolto”, da qui anche l’affermazione nell’intervista a Messori – Rapporto della fede – che una certa “protestantizzazione” della Chiesa non era una semplice favola o una esagerazione, ma una triste realtà, ndr).

Ma che cosa ha potuto rivoluzionare tanto rapidamente una tradizione, che fin dai tempi della Chiesa antica era radicata saldamente ed era stata sempre considerata centrale? L’apparente evidenza del pensiero biblico da sola non vi sarebbe certo stata sufficente. E’ presumibile che l’efficacia delle “nuove” argomentazioni sia derivata in notevole parte dal fatto che la concezione definita “biblica” dell’assoluta indivisibilità dell’uomo collima con la moderna antropologia naturalistica, la quale vede l’uomo unicamente come corpo e non vuole sapere nulla di un’anima che ne possa essere separata.

Ma la prima considerazione che ne consegue è la seguente: sebbene la rinuncia al concetto dell’immortalità dell’anima elimini un potenziale punto conflittuale tra la fede e il pensiero moderno, ciò non salva tuttavia la Bibbia, poichè per la coscienza moderna la via biblica sembra ancora molto meno percorribile. L’unità dell’uomo – e sta bene – ma chi sarebbe in grado, visti i dati odierni della scienza naturale, di immaginarsi una resurrezione del corpo? Una tale resurrezione supporrebbe una materialità radicalmente nuova, un cosmo fondamentalmente cambiato; il che sorpassa del tutto i limiti della nostra capacità intellettiva.

Pure la domanda che cosa avvenga in tal caso nel periodo che precede la “fine dei tempi” non può essere semplicemente ignorata. La spiegazione data da Lutero, di un “sonno dell’anima”, non è certo una risposta che possa convincere!

Ma se non esiste un’anima, se di conseguenza non vi può essere un “sonno”, sorge il problema, “chi” allora potrebbe essere risvegliato? Come si forma l’identità tra l’uomo precedente e l’uomo che, a quanto pare, dovrà essere ricreato dal niente? Pur non condividendo tal pensieri, respingere con sdegno simili domande “filosofiche” non contribuirebbe certamente a dare una spiegazione a tutto ciò.

Per cui si comprese molto presto che qui il solo biblicismo non porta innanzi. Senza “ermeneutica”, cioè senza accompagnare il dato biblico con la ragione, che, collegando sistematicamente i pensieri, può portare anche sotto l’aspetto linguistico ben oltre il dato biblico come tale, non si ottiene nulla.

Volendo ora prescindere da tentativi radicali, che intenderebbero risolvere il problema opponendosi a tutte le affermazioni “oggettivanti” e ammettendo soltanto interpretazioni “esistenziali”, possiamo dire che sono state tentate due vie: formulando un nuovo concetto del tempo e interpretando in modo nuovo la corporeità.

La prima sfera concettuale s’avvicina a quelle riflessioni che abbiamo incontrato precedentemente al cap.3, 1a, e che sono connesse alla questione dell’attesa e della fine imminente. Avevamo visto che si cerca di risolvere questo problema richiamando il fatto che la “fine del tempo” come tale non è più tempo, che quindi non indica una futura data del calendario, bensì è “non-tempo”, per cui trovandosi fuori della temporalità, è vicina a ogni tempo in modo uguale. Da questo concetto si trasse la facile conclusione che, essendo anche la morte un “uscire dal tempo”, essa conduca all’atemporalità.

Nell’area cattolica questi concetti assunsero importanza per la discussione sul dogma dell’Assunzione corporea di Maria nella gloria celeste.

Lo sconcertante dell’affermazione, che un essere umano – Maria – è già ora risorto corporalmente, equivale quasi alla provocazione di verificare comunque il rapporto tra la morte e il tempo e di riesaminare il carattere della corporeità umana. Se fosse possibile vedere nel dogma mariano un caso emblematico di ogni sorte umana si risolverebbero contemporaneamente due problemi:

da un lato si supererebbe lo scandalo ecumenico e intellettuale del dogma, dall’altro lato, quest’ultimo stesso avrebbe aiutato a correggere le precedenti idee circa l’immortalità e la risurrezione a favore di concezioni più bibliche e più moderne.

Sebbene negli scritti recenti si cercherebbero invano approfondimenti chiari e coerenti del nuovo concetto, si può tuttavia dire che nel complesso si è imposta la tesi seguente: il tempo è una forma della vita fisica.

La morte significa uscire dal tempo e entrare nell’eternità, nel suo unico “oggi”. Di conseguenza, il problema dello “stadio intermedio” tra la morte e la risurrezione non è che un problema inconsistente. “Intermedio” esiste soltanto nella nostra ottica umana. In verità la “fine dei tempi” è atemporale; chi muore, entra nel presente dell’ultimo giorno, del giudizio, della risurrezione e della Parusia del Signore. Da qui la propagazione di un pensiero non cattolico: “Di conseguenza si può affermare, che la risurrezione avviene al momento stesso della morte e non soltanto nell’ultimo giorno”.

Questo concetto (“sbagliato”, come spiegherà più volte Ratzinger), che la risurrezione abbia luogo nel momento della morte, si è imposto al punto da essere accolto, con qualche clausola, pure in Hollandischen Katechismus, p. 525 (il fatidico Catechismo Olandese condannato da Paolo VI ma che purtroppo, per le linee morbide intraprese dal Vaticano II, non fu fatto ritirare ma correggere con delle Note aggiunte ai margini del testo): “L’esistenza dopo la morte è dunque già qualcosa come la risurrezione del nuovo corpo”. Il che significa: ciò che il dogma afferma di Maria vale per ogni uomo; a motivo dell’atemporalità che regna al di là della morte, per ogni uomo, morire vuol dire entrare nel cielo nuovo e nella terra nuova, entrare nella Parusia e nella risurrezione.

Qui sorgono tuttavia due domande, di cui la prima è questa: non si tratta forse qui di una velata restaurazione della dottrina dell’immortalità che, dal punto di vista filosofico, si fonda su supposizioni un tantino avventate? Infatti qui si presume la risurrezione già per l’uomo appena morto, per l’uomo che sta per essere portato alla tomba. L’indivisibilità dell’uomo e il suo legame con la sua vita fisica appena spenta, quest’indivisibilità che era stata il punto di partenza della tesi, sembra ora non avere più alcuna importanza. Per cui leggiamo in Hollandischen Katechismus: “Il Signore vuole… dire, che qualcosa, il “proprio” dell’uomo non è il cadavere che rimane…”. In modo più incisivo si esprime Greshake: “La materia in se stessa (come atomo, molecola, organo…) è imperfetta… quando perciò nella morte si determina in modo definitivo la libertà dell’uomo, in questa sua concretizzazione e determinazione finale sono insieme cancellati definitivamente il corpo, il mondo e la storia di questa libertà…”

Sebbene simili pensieri possano essere sensati, ci domandiamo tuttavia, con quale diritto si possa parlare ancora di “corporeità” quando si nega, esplicitamente, ogni rapporto con la materia, alla quale si concede di partecipare all’eternità solo in quanto è stata un “momento estatico d’un esercizio umano di libertà”.

In ogni caso anche in questo modello il corpo è abbandonato alla morte, mentre contemporaneamente viene affermata una sopravvivenza dell’uomo. Per cui la confutazione del concetto dell’anima perde la sua credibilità, poichè implicitamente vi si ammette l’esistenza di una “realtà” personale, separata dal corpo, il che è esattamente quanto aveva voluto esprimere il concetto dell’anima. Riguardo al problema della corporeità e dell’esistenza dell’anima rimane dunque una strana mescolanza di concezioni, che non si può certo accettare come definitiva.

La seconda domanda riguarda la filosofia del tempo e della storia, la quale rappresenta la leva del tutto: è davvero soltanto così che esiste quell’alternativa al tempo fisico e al non-tempo che viene identificata con l’eternità? E’ logicamente possibile collocare l’uomo, il quale ha vissuto il periodo determinante della sua esistenza nel tempo, nella struttura della pura atemporalità? Può, pertanto, un’eternità che ha un inizio essere eternità? Non è, qualcosa che ha un inizio necessariamente non-eterno, temporale? Ma come negare che la resurrezione dell’uomo ha “un inizio”, cioè che avviene dopo la sua morte? Se lo negassimo, la logica ci costringerebbe a concepire l’uomo come già risorto nell’ambito dell’eternità che non ha inizio; il che significherebbe contraddire a ogni seria antropologia e cadere praticamente proprio in quel platonismo che intendiamo combattere.

Ora, G. Lohfink, un sostenitore della tesi della risurrezione “nella morte stessa”, ha notato nel frattempo gli inconvenienti or ora esposti e ha cercato di porvi rimedio, richiamando il concetto medievale dell’aevum, il quale (partendo dall’analisi dell’esistenza dell’angelo) tenta di descrivere il particolare rapporto tra il tempo e lo spirito. Lohfink opina che la morte non introduce nel “non-tempo”, bensì in un nuovo tipo di temporalità che è propria dello spirito creato… (..)

… con queste argomentazioni gli interrogativi precedenti non sono affatto eliminati… l’aevum fornisce qualche informazione, ma non dice assolutamente nulla sul fatto che si possa considerare come già compiuto l’insieme della storia.

Fa uno strano effetto che un esegeta sostenga, per motivare queste speculazioni, che per Gesù, “secondo l’interpretazione paleocristiana, la morte è seguita immediatamente dalla risurrezione dei morti” e che con ciò “è dato il modello reale dell’escatologia cristiana”, ma che “il cristianesimo (qui intende la Chiesa) si è dimenticato di applicarlo, oltre che a Gesù anche agli altri”.

Anzitutto non si dovrebbe trascurare che il messaggio della “risurrezione al terzo giorno” evidenzia chiaramente una cesura tra la morte e la resurrezione; ma soprattutto è innegabile che da nessuna parte nell’annunzio paleocristiano la sorte di coloro che muoiono prima della Parusia risulta equiparata all’evento del tutto particolare della Resurrezione di Gesù, il quale consegue dalla posizione assolutamente unica e ineguagliabile che Gesù occupa nella storia della salvezza.

D’altronde occorre qui denunciare nuovamente un platonismo accentuato sotto un duplice aspetto: in primo luogo, in simili modelli il corpo viene privato definitivamente della speranza della salvezza e, in secondo luogo, con l’aevum l’ipostatizzazione della storia è minore rispetto alla teoria di Platone, soprattutto perchè manca di logica.

Può darsi che questa nostra esposizione sia riuscita un pochino troppo lunga. Tuttavia essa è necessaria di fronte al fatto che nella coscienza teologica queste teorie hanno trovato un’accoglienza pressoché unanime. Occorre far comprendere che questo consenso poggia su un terreno estremamente fragile. Un espediente ermeneutico tanto frammentario e complesso, pieno di crepe e di lacune, non potrà costituire una stabile base né per la teologia né per l’annunzio ed è in se stesso contraddittorio.



In definitiva, spiega Ratzinger, sostenere queste teorie è protestantizzare la dottrina cattolica, arrivare laddove voleva arrivare Lutero.

Provate a digitare su google.it immagini la parola “anima” o anime portate in cielo, vi accorgerete che non uscirà nulla di cattolico, nessuna immagine o immaginetta che possa ricondurre alla dottrina cattolica del termine anima, forse ne troverete una o due, non di più, difficilmente troverete la santa Messa quale supporto per le Anime dei Vivi e dei Defunti.

Fonte: https://cooperatores-veritatis.org/2012/11/02/ratzinger-la-parola-anima-non-cera-nel-nuovo-messale-romano/#:~:text=L’opinione%20che%20parlare%20dell,scomparso%20dal%20rituale%20della%20sepoltura%E2%80%A6.

ULTERIORI APPROFONDIMENTI SUL PENSIERO DI RATZINGER:

http://www.gliscritti.it/approf/2006/conferenze/benedetto06.htm#mozTocId734933

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Ritorno al reale, di Vincenzo Costa



A volte si ha l’impressione di vivere in una sorta di delirio, in cui il principio di realtà svanisce, e il delirio diventa un criterio di razionalità, per cui chi contesta il delirio diventa, di volta in volta, un amico di dittatori, un putiniano, un nemico del progresso.

È caratteristico delle psicosi questo modo di esperire l’altro e le argomentazioni dell’altro.

In questo delirio che, grazie all’opera incessante dei media diviene la realtà e la moralità e il segno di essere “dalla parte giusta”, rientra negli ultimi tempi l’idea secondo cui la guerra in Ucraina può finire solo con il ritiro russo dal donbass e addirittura dalla Crimea.

Questo delirio non prende in esame almeno tre circostanze:

1) un’occupazione del donbass da parte dell’esercito ucraino, sotto il controllo dell’attuale regime di Kiev, porterebbe a una spietata pulizia etnica, forse nel silenzio dei media occidentali, per i quali oramai la realtà può essere costruita è venduta come si vuole. Già quanto succede a Kherson divrebbe fare riflettere, avrebbe dovuto suscitare una qualche reazione indignata da parte dei fautori dei diritti umani, almeno almeno la richiesta di osservatori ONU che controllino se non siano all’opera repressioni verso i “collaborazionisti”. Niente di tutto questo, ed ormai il regime di Kiev può pensare di essere al di sopra di ogni legge, di godere di una assoluta impunità, perché tanto i media occidentali oscurerebbero qualsiasi crimine da esso compiuto.

2) vi erano accordi (quelli di Minsk) che avrebbero dovuto garantire una certa autonomia al donbass, e l’Europa avrebbe dovuto garantire questo accordi. Per otto anni quegli accordi sono stati violati dal regime di Kiev, nel silenzio di Kiev e delle autorità europee, con una logica ipocrita che ha reso l’Europa priva di credibilità agli occhi del mondo. Il mondo ha ormai chiaro che i diritti umani vengono richiamati quando conviene, che i media occidentali sono strumenti di guerra e non di informazione. Riportano le notizie quando conviene, per fomentare disordini e dare visibilità e rendere possibili regime change. Mentre tacciono quando i regimi sono sanguinari ma utili alleati e gli interessi motivano il loro mantenimento al potere.

Così un principe sanguinario viene graziato, senza molto clamore, in certi paesi si fanno i mondiali di calcio, senza che vengano boicottati.

Ipocrisia come legge fondamentale della politica estera.

3) se veramente accadesse che i russi fossero costretti a ritirarsi dal donbass e dalla Crimea, questo non sarebbe la fine della guerra. Bisogna dire la verità alle persone: sarebbe l’inizio di una guerra micidiale.

Solo nel delirio si può credere che sarebbe la fine della guerra.

Se vi fosse un’Europa all’altezza della sua tradizione culturale, un’Europa che ha trasformato in coscienza la sua storia e ha tratto insegnamento da esso ci si dovrebbe adoperare per una pace giusta.

La pace giusta dovrebbe partire da un fatto: in certe regioni vivono tradizioni etniche, linguistiche e culturali diverse. Si tratta allora di chiedere e di imporre un principio: a chiunque appartengano quelle regioni le popolazioni che vi vivono devono poter conservare la loro lingua, la loro cultura, i loro legami storici.

Dati i fatti, sotto gli occhi di tutti, per cui il regime di Kiev chiede rimozioni di monumenti, cancellazione della lingua russa, della memoria storica, della letteratura russa, dato il fatto che mira a cancellare ogni traccia di Russia in Ucraina, e credo che si possa convenire che questa è follia ed è un nazionalismo che ricorda il nazismo e la pulizia etnica e culturale, qualcuno se la sente di sostenere che i diritti delle popolazioni russe sarebbero salvaguardare in Ucraina con l’attuale regime?

L’Europa vuole essere complice di quello che accadrebbe in seguito ad un eventuale (e improbabile) ritiro russo dal donbass e dalla Crimea?

Esattamente, per che cosa sta chiedendo sacrifici l’attuale dirigenza della UE?

Per la libertà dei popoli e per i diritti o contro la libertà dei popoli e il diritto?

Perché ormai è chiaro che non vi è alcuna pretesa russa di annettere l’ucraina e di privarla della propria sovranità.

La posta attuale è diversa: quale destino vogliamo sostenere per le popolazioni russe che vivono in Ucraina? O le popolazioni russe non hanno gli stessi diritti e sono razza inferiore, come pensa il regime di Kiev, che si considera europeo e considera i russi asiatici e discendenti dall’orda d’oro?

Non vi è un filo di razzismo? Qui l’universalismo dei diritti non conta più?

Riguardo alle discriminazioni cui sono soggette le popolazioni russe nei paesi baltici non vedo molte notizie nella stampa libera, ne’ sentì levarsi la voce indignata dei rappresentanti europei.

Non vorrei che fossero dei miserabili razzisti, solo subdoli, che usano i diritti universali per promuovere pratiche di discriminazione.

(Vincenzo Costa, professore ordinario alla Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele, dove insegna Fenomenologia (triennale) e Fenomenologia dell’esperienza – biennio magistrale -. Si è laureato in filosofia all’Università Statale di Milano con lode.)

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Risponde un Medico

Egregio Sig Marco Paleari a proposito di quello che ha scritto non posso non risponderle.

Sono un Medico di quelli che lei definisce ciarlatani anti scienza e dai quali non vorrebbe essere curato. Sa, sono anche un Medico che da marzo 2021 è entrato nel Gruppo Terapia domiciliare C-19 e ha iniziato a curare centinaia di persone in tutta Italia.
Persone positive al tampone abbandonate dai Medici di Base che quando rispondevano al telefono altro non era che Tachipirina, vigile attesa e se state male chiamate il 118, naturalmente nessuna risposta il sabato, la domenica e le feste comandate.

Noi invece del tutto gratuitamente eravamo sempre disponibili, con il telefono sempre acceso e se non potevamo rispondere richiamavamo.

Ricordo bene il giorno di Natale e a Capodanno 2021 60 telefonate e 60 messaggi…sempre disponibili anche a prescrivere i farmaci necessari in base al decorso clinico della malattia, Farmaci che le persone andavano a comprare perché il loro Medico oltre la Tachipirina non prescriveva.

Non conoscevo nessuna delle persone che ho curato ma forse lei non può capire che cosa provavo ogni volta che mi comunicavano che si sentivano meglio, che i sintomi stavano regredendo, che si erano negativizzati . Quante belle parole ho ricevuto e che sorpresa vedere arrivare tanti di loro a Trani in vacanza appositamente per conoscermi.

Lei non è Medico… come può avere l’ arroganza e la competenza di dare del Ciarlatano a chi invece Medico lo è?
Perché sarei un ciarlatano? Perché ho ragionato con la mia testa e con le mie conoscenze e non secondo quello che dicevano le virostar televisive?
Perché ho ritenuto fin da subito assurdo rendere difficoltose l’ esecuzione di autopsie (di fronte ad una nuova malattia indispensabile mezzo per capirne la fisiopatologia), perché ho ritenuto assurdo per una malattia infettiva respiratoria chiudere per tre mesi le persone in casa mentre continuava ad entrare gente in Italia negli aeroporti e via mare, perché ritenevo assurdi certi provvedimenti che nulla avevano di Medicina Preventiva come il salutare con il gomito, con il pugno, inseguire con gli elicotteri persone che passeggiavano solitarie sulla spiaggia, marito e moglie uno avanti e uno dietro in auto, disinfettarsi le mani ogni volta che si entrava in un negozio, permesso di andare a trovare i congiunti a Milano e non tra Trani e Bisceglie che distano 8 km, virus che esce ad orari, virus che colpisce prima in piedi e poi seduti al bar, mascherine di stoffa e di carta che bloccano la diffusione del virus, banchi a rotelle…

Sono un ciarlatano perché non ho mai prescritto a nessuno la Tachipirina e perché sono stato a contatto continuo giornaliero e più volte al giorno per i casi più gravi con le persone che seguivo?

Sono un ciarlatano perché sono andato a leggermi la scheda tecnica di Pfizer e di Moderna e ho letto sin da subito che il V. non è mai stato sperimentato per quel che riguarda la trasmissione dell’infezione (lo faccio per gli altri è una falsità), che il V. è stato sperimentato per tre mesi in persone dai 16 ai 60 anni sane nessuna sperimentazione in persone oltre i 60 anni con patologie, in bambini e in gravidanza, che non esistono studi di genotossicità e cancerogenicità, che il meccanismo di azione è quello di fare produrre alle nostre cellule la proteina Spike che è la proteina tossica del virus …

Sarei un Ciarlatano perché non ho creduto a qualche virostar che durante qualche trasmissione televisiva sosteneva che chi era vaccinato non avrebbe potuto trasmettere il virus, puntualmente smentito da quanto accaduto con tri e quadri dosati che si sono infettati e hanno infettato.

Sarei un Ciarlatano perché non ho creduto a qualche altra virostar che ha affermato che dopo la seconda dose di poteva star tranquilli per 10 anni.

Sarei un ciarlatano perché ho fatto il Medico come mi hanno insegnato all’università? sarei stato cacciato a pedate dal Mio professore di Clinica Medica se all’esame avessi risposto che una polmonite si cura con vigile attesa e Tachipirina.

Lei non vuole farsi curare da noi medici ciarlatani, liberissimo di pensarlo. Noi in realtà a differenza di altri medici ed infermieri che hanno detto cose inimmaginabili sui non vaccinati, curiamo tutti: vaccinati, non vaccinati, bianchi, neri, gialli, ucraini , russi, intelligenti, idioti…

Qualcuno ha pure detto che dovremmo metterci una spilletta, ottima idea. Moltissimi sono sicuro andrebbero a cercare proprio quelle spillette.

Stia tranquillo comunque troverà sempre qualcuno pronto a curarlo se un giorno diventerà positivo. Le assicuro che se anche troverà in Pronto Soccorso due medici con la spilletta avrà le cure migliori anche se non posso assicurarle che non gli verrà richiesta una consulenza psichiatrica da parte di un Medico freevax.

Dottor Gianni Grilli

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Analisi di Marco Zuccaro

Di Marco Zuccaro

Il cosiddetto “annuncio senza precedenti” preannunciato da Jens Stoltenberg («non riconosciamo l’annessione di territori ucraini alla Federazione Russa; tale annessione rappresenta l’escalation più grave dall’inizio del conflitto») si è infine rivelato un bluff, al pari degli episodi di stampo cinematografico preparati dall’attore comico Zelensky. Non ho mai visto il segretario della Nato così in difficoltà: a tratti balbettava, lasciando quasi intendere che non sapesse bene cosa dire. Ad ogni modo, non ha parlato con autorevolezza.

Il rischio di uno scavalcamento delle regole in seno all’alleanza atlantica, da motivarsi per l’eccezionalità degli eventi odierni, non è mai stato concreto.

Stoltenberg ha affermato che la Nato «non è parte del conflitto» e che occorre il parere favorevole di tutti e 30 i suoi membri prima che l’Ucraina possa accedere all’organizzazione (il che non accadrà, e certamente non accadrà nel breve periodo). In sostanza si sono udite da lui le argomentazioni di sempre, già ripetute innumerevoli volte.

La Nato vuole “continuare a supportare Kiev”, ma non ha la minima intenzione di agire alla luce del sole e di assumersi la responsabilità di un conflitto pianificato e concretizzato dagli americani. Non ora, almeno.

Putin, con la sua mossa, ha passato la palla alla Nato, che sua volta l’ha ripassata a Putin per mezzo del suo segretario quando questi ha chiarito che l’Ucraina «ha tutto il diritto di riprendersi i territori annessi» (e di farlo servendosi delle armi della Nato stessa, ovviamente).

Tutto questo baccano per nulla, dunque? Non proprio. Le zone di Kherson, Zaporizhzhia, Donetsk e Lugansk sono ufficialmente divenute territorio russo. Oggi è una giornata di portata storica, che fa registrare la schiacciante superiorità strategica e geopolitica della Russia e ci riconsegna un’immagine semplicemente impietosa delle dirigenze occidentali, che ne escono ridimensionate se non proprio umiliate, avendo mostrato al mondo la propria incapacità di confrontarsi con una diplomazia vera. Detto altrimenti: a Ovest non sanno cosa fare quando non si ricorre alle armi.

Del resto: la Nato risponderà cercando – com’è evidente da tempo – di prolungare questa follia il più possibile (“si vuol fare dell’Ucraina un altro Afghanistan”, si diceva), facendo in modo, però, che la natura del conflitto resti saldamente di tipo convenzionale (non per caso lo stesso Stoltenberg ha dichiarato, per ovvie ragioni, che «una guerra nucleare non può mai essere combattuta»).

Al contempo, gli apparati politici e mediatici degli Stati dell’alleanza atlantica stanno facendo di tutto per tenere alta la tensione e la paura onde poter fiaccare e controllare più facilmente le loro popolazioni, che saranno (e che in parte sono già) sottoposte a gravissime conseguenze. Difatti, per quanto Stoltenberg si sforzi di far credere che questa guerra riguardi solo l’Ucraina e la Russia, sono tutti i Paesi europei a essere chiamati a pagare pesantemente – in termini economici e sociali – perché essa prosegua al fine di garantire a) il dominio statunitense sul Vecchio Continente; b) la cristallizzazione di un allontanamento tra Federazione Russia ed Europa (e Germania in primis) che gli americani vorrebbero definitivo e insanabile.

E se per un lato registriamo la cieca fedeltà di Meloni verso i suoi padroni d’Oltreoceano (non riesco a quantificare quanto pessima sia stata la figuraccia che ha fatto, e parliamo di colei che presumibilmente verrà piazzata a capo del prossimo governo italiana), per l’altro lato la mutata situazione geopolitica ci impone di riflettere su quel che potrebbe accadere di qui a breve.

Perdonerete il mio cinismo, ma a parer mio ora tutto dipende dall’incisività dei prossimi attacchi russi. Mi chiedo e vi chiedo: se Kiev dovesse continuare ad attaccare regioni divenute formalmente russe, la risposta del Cremlino sarà realmente così dura come promesso da Putin? Dacché do per scontato che l’Ucraina continuerà ad attaccare i russi in queste zone, mi aspetto e che Mosca risponda con una brutalità mai vista in questi ultimi mesi, e che la Nato se ne stia ferma a osservare. In tale scenario la fine della guerra, pur passando attraverso una dimostrazione di forza che causerà ulteriore devastazione, si avvicinerebbe.

Viceversa, laddove Ucraini e Russi continuassero a confrontarsi così come fatto finora, mi sorgerebbero dei dubbi molto profondi sull’effettività di due schieramenti nettamente distinti e in conflitto tra loro. In tal caso inizierei a pensare alla possibilità che esista qualcuno che manovra gli agenti visibili per interessi non facilmente identificabili, ma comunque sia legati al prosieguo della guerra nel tempo. In tal senso, la possibilità di una escalation di tipo nucleare verrebbe costantemente sottoposta agli occhi dell’opinione pubblica pur non costituendo mai, nei fatti, un’ipotesi concreta: essa servirebbe solo per costringere le popolazioni europee alla sopportazione mansueta di qualunque tipo di “sacrificio”.

Ad ogni modo, cosa possiamo fare in questo contesto, tenuto conto di tutto? Anzitutto considerare i nostri politici per quelli che essi sono: degli emeriti imbecilli; ma soprattutto non lasciarsi intimorire, non avere paura di nulla. Potrà sembrare un aspetto secondario, ma la rimozione della paura sarà ciò che ci permetterà di restare lucidi durante tutto questo inverno, reagendo così come Cristo comanda ai possibili – forse probabili – provvedimenti che il prossimo governo emanerà contro di noi, siano essi legati all’energia, all’alimentazione, al coprifuoco o ad altre strategie militari o para-militari.

I due anni di gestione pandemica dovrebbero averci insegnato a non restare zitti dinnanzi al sopruso del potere amministrativo e alla cancellazione dei nostri diritti. Io perciò attendo il prossimo periodo con serenità e determinazione, e vi invito a fare altrettanto.

Del resto, come ho già scritto in passato: di guerre sparse per il mondo, nel momento in cui scrivo, ve ne sono diverse, e non di tutte ci interessiamo così come di quella russo-ucraina. Se per quest’ultima è doveroso avere un occhio di riguardo, non è perché il popolo ucraino o quello russo meritino più considerazione di quello palestinese o di qualunque altro, bensì perché per essa viene severamente compromessa la qualità delle nostre vite.

Proprio in ciò deve individuarsi la nostra priorità: nel benessere del nostro popolo, del nostro e non d’altri. Coloro i quali imbastiscono, assai ingenuamente, dei discorsi etici o morali attorno alle responsabilità dello scoppio e del prosieguo della guerra in Donbass dimenticano un aspetto fondamentale, di cui non tengono minimamente conto: quale che sia la parte ad avere maggiori responsabilità in questa guerra, in un simile scenario non vi è nulla di più immorale di uno Stato esterno al conflitto che, pur di fare “il bene” di una delle parti, sacrifica le sue stesse genti, facendo il male di queste. Da un punto di vista etico, uno Stato non dovrebbe minimamente muoversi se non può, dapprima, garantire che il suo popolo non subirà delle conseguenze nefaste per le sue azioni calate dall’alto.

D’altronde, a voler tirare in mezzo la morale quando si parla della guerra si corre sempre il rischio di risultare tremendamente e insopportabilmente ipocriti. Vorrei ben dirlo, a bombardare Belgrado, a due passi da noi, nel cuore dell’Europa, non più di qualche anno fa, c’erano anche i caccia italiani.

Sorvolo sul fatto che l’Ucraina non faccia parte né della Nato, né dell’Unione Europea; tanto è cosa di cui non frega niente a nessuno.

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Volete votare?

[Volete votare? Votate contro la guerra, dunque]

Nelle scorse ore ho letto di Mario Draghi e del suo viaggio negli USA volto a rassicurare la Casa Bianca sulla cieca ed estrema fedeltà al patto atlantico del nostro Paese, quale che sia la prossima maggioranza di governo. Vedete? Scrivo spesso che le politiche italiane del prossimo futuro sono già state stabilite, e non certo a Roma. Questa è un’altra – l’ennesima – occasione che dimostra l’esistenza di un vincolo esterno molto forte, che ci condiziona su più livelli e verso il quale le elezioni nazionali non hanno alcun potere, configurandosi piuttosto come un appuntamento formale.

Il posizionamento geopolitico del nostro Paese è a dir poco autolesionista, è degno solo di una colonia militare, comporta dei sacrifici non solo inutili, ma anche coatti, e quel che è peggio: esso è voluto e condiviso da tutti i gruppi parlamentari. Quanto ai pochi di “Alternativa”: questi stanno per lasciare le aule e non sono stati comunque in grado di porre il tema dell’uscita dalla NATO come punto politico fondamentale. Figuriamoci, lo stesso Pino Cabras mi ha confessato il segreto di Pulcinella, ovverosia che a parlar seriamente di staccarsi dalla NATO si mette a rischio la propria vita. Cosa che peraltro io so benissimo, e difatti credo che ai nostri parlamentari occorra chiedere esattamente questo: di battersi per noi a costo di morire. Non vedo per quale altra ragione si dovrebbe stipendiare e proteggere, così come noi facciamo, i parlamentari della Repubblica.

Ora vengo al punto: nell’attuale periodo storico, cioè nel contesto in cui siamo immersi, dopo due anni devastanti per i quali molti personaggi politici dovrebbero non già poter ricandidarsi, bensì scontare un ergastolo, ci viene chiesto di votare in anticipo e di far ripartire la giostra delle legislature tirando una molla la cui carica teorica perdura per 5 anni; e innanzi a questo appuntamento vediamo che tutti o quasi tutti i politici fingono che i due anni devastanti che abbiamo appena trascorso non siano mai esistiti, e quanto al futuro: vediamo che sul tema più determinante per le sorti economiche della Nazione, sul tema della guerra quei pinguini sono tutti perfettamente allineati e proni. E nondimeno siamo a questo punto: che appoggiare la guerra sul fronte USA significa prendere il preciso impegno di prolungare il più possibile il conflitto bellico tra USA e Russia, con gravi perdite umane sul territorio interessato dagli scontri e con altrettanto gravi conseguenze sociali in tutto il mondo, e specialmente in taluni Paesi (tra cui il nostro). Parlo di difficoltà estreme per i ceti medio-bassi, parlo non già di povertà, ma di impoverimento doloso di milioni di persone; parlo di imprese che chiudono i battenti, di famiglie rimaste sul lastrico, di disoccupazione e precariato perenne; parlo di stato sociale ridotto in pezzi, parlo di una scuola e una sanità finite allo sbando, e tutto ciò mentre il consiglio dei ministri trova pur sempre il modo di reperire fondi pubblici per finanziare le spedizioni di armi e la morte che esse determinano.

Civili ucraini e civili russi sono morti (anche) per opera delle armi italiane che il governo italiano ha fornito per nome e per conto dello Stato italiano: il popolo italiano ha qualcosa da ridire su questo, o se ne resterà muto?

Posta l’assoluta, l’estrema, l’intollerabile gravità dei crimini che gli ultimi governi hanno commesso durante la cosiddetta “emergenza pandemica”: noi vediamo adesso concretizzarsi, e applicata su di noi e sulle nostre vite la nuova emergenza, l’emergenza bellica in tutto il suo nuovo – sempre eguale a sé stesso – squallore; così incominciamo a udire giornalisti e politici che cercano di convincerci che sia normale tutto questo, che sia normale subire, impoverirsi, stare sempre angosciati, e che sia normale fallire e morire per una guerra che non ci riguarda. Il popolo italiano ha qualcosa da ridire su questo, o se ne resterà muto?

Interessa realmente a qualcuno che russi e ucraini, vale a dire popolazioni molto affini tra loro per lingua, cultura e storia, si bombardano di continuo e si ammazzano tra loro? Si dovrebbe dunque lavorare per la pace, per la pace anziché per la guerra. È molto semplice.

Andate pure a votare se volete; ma sappiate questo:

– che votare PD è votare per la guerra;
– che votare Fratelli d’Italia è votare per la guerra;
– che votare Lega, 5 Stelle, Renzi, Calenda, Bonino, Fratoianni, ecc. è votare per la guerra.

Votare per la guerra non è una cosa da poco. Dovreste pensarci, e dovreste pensarci fino ad avere voglia di vomitare.

Mi fermo qui, non vorrei addentrarmi negli scetticismi che nutro verso forze politiche alternative. Per ora mi basta ribadire il quadro sui partiti tradizionali, su quelli che effettivamente hanno portato l’Italia in questo pantano. Ad ogni modo, è ora che ciascuno di noi si responsabilizzi. Votare per contribuire al prosieguo di queste follie significa, a sua volta, essere affetti da follia. Ciascuno di noi si domandi quali valori ha in seno, e cosa fa nella vita per difenderli, e se realmente val la pena di gettarli alle ortiche esprimendo il proprio consenso verso una cosa atroce come la guerra.

La campagna elettorale è stata una pena. I partiti politici italiani sono una vera pena.

Io, dal canto mio, vi dico intanto: se dovete votare, votate contro la guerra. Sentitevi male, altrimenti. Con una nausea più lunga – e profonda.

(Marco Zuccaro)

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Di qua e di là del fronte, i gruppi armati neonazisti di Ucraina e di Russia

articolo del 2 aprile 2022

Tra formazioni note e numerosissime altre meno conosciute, ma ugualmente addestrate e operative con migliaia di uomini in forza ai due eserciti. Hanno tutte una importante componente politica, tuttavia costituiscono un’attrattiva soprattutto per il loro prestigio militare. Una sorpresa che siano l’una contro l’altra armate? Niente affatto.

Questo è il primo di due articoli in cui si riassume il coinvolgimento dell’estrema destra nel conflitto russo-ucraino. La seconda parte, intitolata Eterni fascisti e Russia eterna, si occupa delle interazioni che l’estrema destra italiana ha avuto e ha tutt’ora con le parti in conflitto.

Gruppi armati di estrema destra e ultranazionalisti costituiscono uno degli scandali del conflitto russo-ucraino ben prima del 2022. Una presenza che, seppure a margine di una tragedia di quelle dimensioni, ha trovato molte volte l’attenzione delle cronache, oltre a offrire fondati motivi di preoccupazione e aver avuto anche un posto d’onore nella propaganda di guerra.

È cronaca di queste settimane: Denis Prokopenko è stato insignito dal presidente Zelensky della più alta onorificenza nazionale. Il Maggiore Prokopenko, che adesso può fregiarsi del titolo di “Eroe dell’Ucraina” in virtù dell’impegno profuso nell’attuale conflitto, è il comandante del Reggimento Azov, forse il più noto gruppo armato partecipato da neonazisti.

Un paio di settimane prima moriva in battaglia Vladimir Zhoga, comandante del Battaglione Sparta, anche questo con una nota collocazione politica di estrema destra, ma combattente in Donbas in forze ai filorussi. Putin, il giorno dopo, dichiarava Zhoga “Eroe della Federazione Russa”.

IL LATO UCRAINO

Inizialmente denominato Battaglione Azov, il Reggimento è un gruppo nato come paramilitare e formato da volontari distintosi a Mariupol nel 2014, durante la guerra nel Donbas. Nello stesso anno il Battaglione viene integrato nella Guardia Nazionale trovando nell’allora ministro ucraino della difesa un acceso sostenitore.

Nel 2016 veterani del Reggimento, assieme a un’associazione civile a esso collegata, fondano il partito di estrema destra Corpo Nazionale, fortemente anti-russo e che al contempo prospetta per l’Ucraina un ruolo internazionale improntato alla neutralità, osteggiando infatti l’ingresso dell’Ucraina sia nella Nato sia nell’Unione Europea. Si è cercato cioè di convertire il prestigio militare e certe vicinanze con il governo nazionale in un durevole influsso sulla politica interna del Paese. La risposta però è stata una netta bocciatura.

Nelle elezioni parlamentari del 2019 è parte di una coalizione di estrema destra che però non riesce neppure ad avvicinarsi alla soglia di sbarramento del 5%. Nelle elezioni amministrative del 2020 i risultati sono ancor più deludenti, riuscendo a eleggere solamente 23 rappresentanti su un totale di quasi 160.000 seggi assegnati nelle varie città e nei vari distretti rurali.

L’attuale presidente di Corpo Nazionale, Andriy Biletsky, ha una storia politica tutta orientata al nazionalsocialismo. Nel 2010 dichiarava che la missione nazionale dell’Ucraina fosse quella di “guidare le razze bianche del mondo in una crociata finale […] contro le razze inferiori guidate dagli ebrei“. Leader di Patrioti Ucraini e di Assemblea Socialnazionale – due organizzazioni neonaziste – è fra i fondatori e primo comandante del Battaglione Azov nel maggio 2014, abbandonando l’incarico militare quando a settembre risulta eletto al parlamento. Nel 2019, come già detto, non viene rieletto.

Attualmente il reggimento è composto da un migliaio di uomini direttamente impegnati sul fronte nei cruenti scontri con l’esercito russo nella regione del Doneck e il parlamento statunitense ha in più occasioni espresso preoccupazione verso questa formazione, al punto che nel 2021 la presidente della sottocommissione per la lotta al terrorismo lo ha definito classificabile come una “organizzazione terrorista straniera”.

L’assorbimento e la normalizzazione di gruppi armati neonazisti da parte delle istituzioni ucraine non è però, con il Reggimento Azov, un’eccezione. Solo qualche mese fa Dmytro Kotsyubaylo, ex-comandante di Settore Destro – altro gruppo armato che aggrega anche neonazisti – aveva ricevuto la stessa onorificenza di Prokopenko, sempre dalle mani del presidente Zelensky.

Vale poi la pena ricordare almeno il Battaglione Aidar, anch’esso di orientamento nazionalsocialista, oggetto di uno specifico dossier da parte di Amnesty International in cui i suoi miliziani vengono riconosciuti come autori di violazioni di diritti umani, abusi e violenze sui civili inquadrabili come veri e propri crimini di guerra. Anche a seguito delle proteste internazionali il governo ucraino sbanda il Battaglione Aidar riaggregando soltanto alcuni effettivi all’interno di altre formazioni dell’esercito.
Il Battaglione Aidar è stato finanziato – così come il Battaglione Dnipro, anch’esso responsabile degli stessi crimini dell’Aidar – dall’oligarca Igor Kolomoisky, uno degli uomini più ricchi e influenti dell’Ucraina.

IL LATO RUSSO E FILO-RUSSO

Meno note sono invece le formazioni neonaziste in forza all’esercito russo o inserite ufficialmente o meno fra le forze separatiste filo-russe.

In apertura dicevamo del Battaglione Sparta: creato nel 2014 il gruppo paramilitare è stato guidato dal russo Arsen Pavlov (conosciuto anche come “Motorola”, per il suo passato di marconista) fino al 2016, ovvero fino a quando non è rimasto ucciso in un attentato mai chiarito, del quale sono stati incolpati più soggetti, sia appartenenti al lato ucraino, come la Misanthropic Division – ovvero un gruppo internazionale aggregato al Reggimento Azov –, sia appartenenti all’altro lato, come alcuni gruppi filorussi rivali. Pavlov, che aveva ricevuto incoraggiamento e regali dal politico russo Vladimir Zhirinovsky, è stato accusato di crimini di guerra.

Negli stessi giorni della morte di “Motorola” era stato ucciso a Mosca, in maniera altrettanto oscura, il fondatore di uno dei più noti gruppi paramilitari filorussi del Donbas – Oplot, ovvero “roccaforte, baluardo”– e nel 2018 Aleksandr Zacharcenko, il nuovo comandante della stessa formazione e presidente dell’autoproclamata Repubblica Popolare di Doneck, aveva perduto la vita in un nuovo attentato, anche questo di dubbia attribuzione.
Il gruppo Oplot, come altri che combattono fra i filorussi nelle regioni contese dalla Russia all’Ucraina, ha una coloritura politica ben precisa, ovvero quella del nazionalbolscevismo. Al di là delle radici storiche che risalgono alla Germania di inizio Novecento, il nazionalbolscevismo è stato reimmaginato in Russia da Aleksandr Dugin e Eduard Limonov come un rinnovato sincretismo fra nazismo e comunismo, finendo comunque per inserirsi nel frammentato mondo dell’ultranazionalismo di destra e del neofascismo e alimentare ulteriori formazioni paramilitari come le Interbrigate.

Pavel Gubarev, il predecessore di Zacharcenko alla presidenza della Repubblica Popolare di Doneck, proveniva dal gruppo paramilitare esplicitamente neonazista Unità Nazionale Russa ed era passato da esperienze politiche analoghe, rimbalzando fra nazionalsocialismo e nazionalbolscevismo. Adesso Gubarev è tornato alla vita militare, combattendo nell’esercito russo.

Unità Nazionale Russa è di particolare interesse per capire come la questione sia più antica e radicata degli effetti che vediamo ai nostri giorni. Questo partito assieme al Partito Nazional Bolscevico (che dopo essere stato bandito risorge con il nome L’Altra Russia e guidato la Limonov), l’Unione della Gioventù Euroasiatica e altri operano esplicitamente in favore di un conflitto contro l’Ucraina già dagli anni 90 e allo scoppio delle ostilità in Donbas rivendicano di aver favorito l’afflusso al fronte di migliaia di volontari. Questi uomini, inizialmente dispersi in varie unità – e infatti i simboli politici di ispirazione nazista sono stati visibili in vari gruppi filorussi come il Battaglione Batman – si sono poi riaggregati in buona parte in Oplot.

Il gruppo armato Esercito Ortodosso Russo è l’altra faccia dell’ultranazionalismo russo, quello non strettamente politico ma religioso, o per lo meno ammantato da questo carattere. Fondato nel 2014 è animato da un cruento estremismo cristiano che ha portato a rapimenti, uccisioni e violenze, come finte esecuzioni e torture, ai danni di appartenenti ad altre fedi come ebrei, protestanti, cattolici e anche membri della chiesa ortodossa ucraina.

Infine va almeno citato il Gruppo Wagner, guidato dal neonazista Dmitry Utkin, detto appunto “Wagner” e che ha visto bene di tatuarsi le mostrine delle SS sulle spalle. Questa formazione paramilitare privata, forte di alcune migliaia di uomini e dotata di unità altamente specializzate, è comparsa negli anni in vari fronti di guerra a fiancheggiare gli interessi di Mosca, in particolare in Siria, dove tutt’ora combatte in favore dell’esercito del presidente Bashar al-Assad.

L’Unione europea ha imposto misure restrittive contro membri del Gruppo Wagner per “gravi violazioni dei diritti umani, tra cui torture ed esecuzioni e uccisioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie, o in attività destabilizzanti“.
Alcuni operativi del Gruppo Wagner – che è stato soprannominato “l’esercito personale di Putin” – sarebbero arrivati in Ucraina per compiere assassini mirati ai danni del presidente e del governo di quel Paese.

FARE SENSO DELLE CONTRADDIZIONI

Nazisti ucraini contro nazisti russi. Il presidente ucraino – ed ebreo – che glorifica un reparto nazista e negli stessi giorni il presidente russo – che vuole “denazificare l’Ucraina” – che ne glorifica un altro, nazista anch’esso.

Le contraddizioni sembrano irrisolvibili.

Per cercare di mettere un minimo di ordine è necessario inquadrare il senso delle parole e dei simboli che vengono usati da una parte e dall’altra.

Nazionalsocialismo, come il figlioccio nazionalbolscevismo, è prima di tutto un nazionalismo, estremo e violento. La linea attraverso la quale si orienta la conflittualità è quella del confine nazionale, delle appartenenza culturali. Si è di qua o di là, ci si spara, si determinano equilibri di potere attraverso la violenza. Dunque nessuna sorpresa nel vedere nazisti contro nazisti.

E la presenza di questi gruppi armati innestati di nazismo in una situazione di guerra è questione di pragmatismo, da entrambi i lati. Né Ucraina né Federazione Russa sono naziste di per sé. Però, se da lato ucraino celebrare Stepan Bandera ha funzione primariamente antirussa, l’effetto secondario di celebrare l’ultranazionalista alleato di Hitler è una pesante ferita alla giovane e, per certi versi, ancora incerta democrazia di quella Repubblica. Il clima di guerra in Russia devasta il campo già agonizzante della libertà di espressione, impone il regresso e l’isolamento del Paese nel consesso internazionale e il regresso e l’isolamento della parte più aperta, pacifica e moderna della società russa dalla società russa nel suo complesso.

In fin dei conti ciò che a nostro avviso deve maggiormente preoccupare non sono tanto le opposte propagande di guerra, né – per quanto importanti – i simboli e le parole esplicitamente naziste usate, ma le prospettive che queste e altre situazioni determineranno nel futuro. Inoltre non è da sottovalutare la capacità di contagio anche in realtà distanti dal contesto culturale europeo, come le repubbliche asiatiche dell’ex Unione Sovietica. Analoga preoccupazione è presente per le repubbliche caucasiche, come Georgia e Armenia, dove l’influenza di gruppi estremisti filo-russi è in crescita.

In Ucraina il conflitto porterà ulteriore prestigio al Reggimento Azov. Un prestigio che, come già abbiamo visto, il Reggimento desidera reinvestire per influenzare la politica del proprio paese. E questa è solo la prospettiva meno preoccupante. Come ha sottolineato Amnesty International, la domanda vera è cosa succederà dopo la guerra, dove finiranno le armi che adesso sono nelle mani di questi gruppi politicamente legati al nazismo? Gruppi noti per le violenze verso “donne e attivisti dei diritti LGBTQI+, attivisti di sinistra, famiglie Rom” e che negli anni i governi ucraini non hanno saputo ostacolare efficacemente. Ed è bene sottolineare con forza che questi gruppi hanno fra le mani anche le armi inviate dall’Italia. E ancora, neonazisti armati, addestrati e rotti alla violenza della guerra: questo che valenza ha nella prospettiva di un’inclusione dell’Ucraina nell’Unione Europea? Per non dire – ma lo diciamo nella seconda parte di questo articolo – di come questo si inquadra nelle relazioni internazionali con le formazioni di estrema destra europee e italiane.

In Russia la questione è evidentemente almeno in parte analoga. Ma da quella parte del fronte ciò che è maggiormente rilevante è la rotta politica determinata dalla guerra di Vladimir Putin, ovvero di quella figura che ha realizzato un modello di narrazione statuale e più in generale politica e sociale ostile al “mondo moderno” e alla democrazia, che rimane un riferimento per gran parte dell’estrema destra occidentale.

Infine, per avere una percezione corretta dei fenomeni descritti fino ad adesso, è bene sottolineare che le maggiori formazioni militari descritte di entrambe le parti – come Azov, Sparta e Oplot – sono piccolissima parte dei rispettivi eserciti e pur avendo forti notazioni politiche costituiscono un’attrattiva soprattutto per il loro prestigio militare. Chi si arruola, nella gran parte dei casi, non le sceglie tanto per la loro connotazione ideologica, né poi viene selezionato sulla base di simpatie politiche di estrema destra, ma su questioni decisamente più pratiche, quali addestramento e motivazione bellica. La dimostrazione di questo è il debolissimo credito politico diretto che i partiti vicini al Reggimento Azov in Ucraina e al nazionalbolscevismo in Russia hanno ricevuto fino a ora.
In maniera simmetrica al nazionalismo ucraino che rispolvera Bandera e le formazioni che affiancarono il nazismo storico va considerato criticamente anche il valore antifascista e antinazista della retorica russa. Quell’antifascismo è in parte diverso da quello italiano e su alcuni temi decisamente opposto: qui da noi l’antifascismo è stato lo strumento di transizione fra dittatura e democrazia, in Russia invece è l’orgoglio – il giusto orgoglio – associato alla guerra patriottica che sconfigge l’invasore, ha cioè connotati nazionalistici decisamente più spiccati che in Italia e per questo è utilizzabile da chi con la democrazia ha ben poco a che spartire.

Articolo di Patria Indipendente, testata giornalistica on line dell’ANPI

Pubblicato in: Attualità, Citazioni, Passato

Ecco come speculano sul gas

ECCO COME SPECULANO SUL GAS

Marcello Pamio – 1 settembre 2022

La Cassa Depositi Prestiti supporta imprese e amministrazioni, promuove la crescita e l’occupazione. Casualmente la CdP detiene il 26% delle azioni di ENI spa.
Oggi il prezzo del gas viene determinato dal TTF, un indice finanziario della borsa di Amsterdam, per cui la contrattazione del prezzo del gas non è più legata ad un mercato reale ma ad un indice virtuale finanziario!
L’ENI però compra il gas dalla Russia ad un prezzo bloccato e molto basso, grazie ad un accordo fatto 10 anni fa. Magicamente il prezzo del medesimo gas valutato alla borsa di Amsterdam si moltiplica e questo incremento sta mettendo in ginocchio il settore industriale e le famiglie. Non a caso gli utili dell’ENI sono aumentati del 700% (rispetto il 2021) solo nel primo semestre del 2022.
Scommettete che alle imprese in difficoltà (centinaia di migliaia) saranno dati (come perle ai porci) spiccioli dalla Cassa depositi e prestiti, cioè dal maggiore azionista dell’ENI che speculando sul gas è causa del disastro?
Se non ci ribelliamo neppure a questo crimine, meritiamo l’estinzione di massa!



AZIONISTI ENI SPA:


Governo italiano (Cassa Depositi e Prestiti 25,96%, Ministero delle Finanze 4,37%), 30,6%
The Vanguard Group, 1,82%
Norges Bank Investment Management, 1,45%
GQG Partners, 1,37%
Eni SpA, 0,93%
Amundi Asset Management, 0,86%
Schroder Investment Management, 0,81%
Massachusetts Financial Services, 0,75%
BlackRock Advisors, 0,68%
Geode Capital Management, 0,54%


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