La guerra fa accelerare gli eventi e invertire le prospettive, ma mai così tanti cambiamenti erano ipotizzabili per il tempo di una sola settimana, come accaduto in quest’ultima. E’ in corso un riassetto geopolitico che non era immaginabile e che senz’altro prescinderà dalla volontà e dalle intenzioni degli ‘attori’ in campo. In Italia, paradossalmente, ci è stato un univoco e ferreo posizionamento di tutte le testate giornalistiche su posizioni anti-russe, comprese perfino quelle della contro-informazione, che però ha prodotto un ‘scivolamento’ dell’opinione pubblica verso posizioni contrarie alle politiche governative: secondo gli ultimi sondaggi Ipsos, quasi il 70% degli italiani ritiene necessario negoziare con la Russia e non armare l’Ukraina.
Per capire il parossismo mediatico e il suo scollamento dalla realtà, è sufficiente citare la Rai, che bandisce dai programmi uno dei maggiori esperti di geopolitica, stigmatizzandolo come filo-putiniano, nonostante quest’ultimo si dichiari appassionatamente un filo-atlantista. Nemmeno negli USA, che sono parte interessata del conflitto, vi è una tale dittatura narrativa, dove, su una piattaforma nazionale come la Fox tv, commentatori del rango di Tucker Carlson possono tranquillamente dichiararsi a favore di Putin, il che fa capire come il complesso d’inferiorità da colonia fa eccellere nella stupidità chi ama mostrare il proprio servilismo.
Per quanto riguarda l’analisi strategica, è necessario fare alcune revisioni e rivalutazioni, e la prima riguarda la sopravalutata importanza geopolitica di Ukraina. Abituati a far riferimento alla strategia dell’accerchiamento della Russia, la dottrina Brzezinski, per intenderci, di cui l’Ukraina ne era “il frutto proibito”, abbiamo sottovalutato la perdita della Crimea a favore russo ancora nel marzo 2014. Sull’inerzia dell’odio anti-russo, esploso con la golpe del Majdan, i nuovi leader di Ukraina, illusi di essere i nuovi eroi dell’Occidente e scevri di ogni acume geopolitico, non si sono resi conto che dopo la perdita di Crimea erano diventati meno sfruttabili come partner strategici, e che la considerazione che gli veniva riservata era quella di una qualsiasi banda di avventurieri dilettanti. Trump aveva cercato di minimizzare la voragine che il governo Obama avevano aperto, ma fatto sta che nessuno dei leader atlantisti ha avuto il coraggio di dire agli uomini ucraini che non servissero più, né alla NATO né all’UE. Per cui, questi sono rimasti fino all’ultimo convinti di avere il sostegno politico e militare degli USA, ignari del fatto che tutta la strategia americana contro la Russia era già obsoleta e catastrofale. Forse nell’ultimo anno il regime di Kiev era persino uscito dal controllo dei riferenti americani, così come oggi le para-milizie sono uscite dal controllo di Zelensky, agendo caoticamente, senza alcun coordinamento centrale, come cani sciolti, qualcosa che non dovrebbe essere sfuggito ai ceceni.
Bisogna riconoscere, però, che l’equivoco da parte del regime di Kiev è stato inevitabile, perché dovuto a quel doppio standard con cui operano le rappresentanze americane, che è piuttosto ingannevole. In realtà, la politica USA è un imperialismo meramente affaristico, gestito da lobby trasversali al pubblico e al privato: la porta girevole (the revolving door) fra Stato e corporazioni/contractors privati. Come ben noto, la destabilizzazione di Ukraina è stata opera prevalentemente della coppia Nuland/Kagan che sono un caso di porta girevole anche fra gli schieramenti politici, tra l’altro come lo è la società privata di consulenza diplomatica e commerciale, l’Albright Stonebridge Group (ASG), con cui la Noland collabora da anni e che è stata fondata da Madeleine Albright, deceduta pochi giorni fa – la prima donna segretario di Stato, teoretica della “guerra di esportazione di democrazia” e delle linea di politica estera da adottare nella questione ucraina. In poche parole, non si tratta dell’installazione di sistemi democratici e di benessere occidentale, ma dell’applicazione della dottrina della guerra perpetua, quella che gli USA creano con ogni loro intervento e dove ciò che conta è la creazione di clientelismi e business di sfruttamento. E’ molto simbolico il fatto che la morte di Albright si sia sovrapposta all’occupazione russa di territori d’Ukraina dell’est, segno di come una certa visione del mondo, con le sue regole di dominio unilaterale, stia irrimediabilmente finendo. (Sarebbe interessante capire chi è il vero destinatario delle armi americane ed europee. Con alta probabilità la Polonia, dove Zelensky si sarà rifugiato per proseguire la sceneggiata, fino a che i contratti di fornitura militare non saranno formalizzati.)
Un’altra rivalutazione da fare è quella delle modalità tattiche dell’intervento russo. Per quanto all’inizio ci si aspettasse una specie di Blitzkrieg, l’operazione russa si è rivelata lenta e conservativa, fermo restando che nessuno poteva sapere a priori il piano russo per trarre conclusioni sulla sua velocità. La Russia usa ancora una minima quota del proprio potenziale, avendo anticipato alcuni joker, come i missili Kinzhal. Quello che però straborda dalle premesse iniziali dell’intervento russo sono gli obbiettivi. E’ evidente che la Russia non si limiterà più alle condizioni iniziali richieste durante i negoziati con gli ucraini, che erano le stesse poste anche in via diplomatica prima dell’invasione. A quanto sembra, la guerra finirà con la destituzione dell’attuale Stato ucraino e la sua divisione in protettorati fra la Russia e la Polonia, pur mantenendo un governo formale, sempre se Zelensky ne sarà disponibile. Nelle prossime settimane, dopo averla circondato per mare e terra, ci sarà la battaglia per l’Odessa, città estremamente importante non solo dal punto di vista strategico. Odessa è la città della strage più atroce, dell’Olocausto nazista, per cui le immagini dei russi, che metteranno la bandiera russa sul suo municipio, saranno particolarmente simboliche ed entreranno nei libri di storia.
Quello però che ha superato abbondantemente le premesse iniziali non è solo di carattere tattico e militare. Giorni fa Putin ha disposto che le forniture russe ai paesi occidentali dovranno essere pagate non più in dollari, ma in rubli, rassicurando che non intende a ridurre le quantità negoziate. La sua giustificazione è che le banche occidentali hanno da sole svalutato le proprie valute, congelando le riserve russe. I leader europei hanno contestato la nuova disposizione, ma dovrebbero sapere che questa fa parte della escalation della guerra economica, aperta con le loro sanzioni. Se i partner occidentali eseguiranno le richieste russe, questo significa andare non solo contro le proprie sanzioni. Significa distruggere l’universo di regole creato da loro stessi. Questa misura di Putin aumenterà il valore del rublo e porterà all’indebolimento del dollaro, il quale non ha avuto una settimana facile, essendo stato scaricato anche dall’Arabia Saudita che passa alla valuta cinese. La potenza del dollaro si regge sul petrodollaro e sul dominio militare americano, e il primo sta venendo meno. Anche rimanendo a livello di guerra economica, se i partner occidentali non accettassero di pagare in rubli, la Russia può fermare le forniture tout court, il che determinerà per i paesi europei effetti economici non immaginabili, ma visibili oltre tutto sugli scafali dei supermercati.
Nell’ultima settimana ci sono stati riposizionamenti diplomatici che hanno anticipato la nuova configurazione del mondo. Da paese inizialmente isolato diplomaticamente, che ha avuto contro un Occidente per la prima volta così compatto, la Russia ha ottenuto approvazioni da quasi tutto il resto del mondo. E considerando che l’Occidente e i suoi affigliati pesano il 15% della popolazione mondiale, quel resto è il 85% ed è chiaramente deciso di non voler più giocare secondo le regole del globalismo americano e della sua favola di un mondo interconnesso e senza barriere, in realtà gestito in modo asimmetrico e predatorio. Ha dichiarato la fine della globalizzazione persino Larry Fink, il Ceo di Black Rock, che denuncia la troppa interdipendenza fra i paesi e il fatto che la catena commerciale si sia mostrata inefficace ancora con la pandemia. La globalizzazione non piace più nemmeno a Xi Jinping, e per la prima volta la diplomazia cinese, per consuetudine ritualistica e ambigua, rende esplicita la propria posizione, decisamente favorevole alla Russia. Per rendere meglio l’idea, dell’America Latina solo la Colombia è incondizionatamente pro-americana. Indonesia e quasi tutto il mondo musulmano sostiene i ceceni, fratelli di fede, che stanno liberando dai nazisti i villaggi ucraini, per cui perfino Allah è filo-russo. E cosa dire dell’Africa, dove il paese più sviluppato, la Sud Africa, fa parte di BRICS. Si sta invertendo anche il cliché secondo cui il nuovo ordine mondiale sarà diviso fra democrazie e regimi autocratici. Le democrazie occidentali non esistono più, essendo state sostituite da un progetto neo-capitalista e neo-totalitario che ha occupato tutta la realtà e tutte le prospettive con una visione tecnologizzata e iper-riduzionista del concetto di vita umana. Attualmente l’unico paese democratico è l’India, che nel nuovo contesto è tutt’altro che filo-occidentale.
Dopo la caduta dell’URSS le élite occidentali avevano creduto che questa fosse la fine della storia, per cui hanno perso ogni senso della realtà, sostituendolo con wishful thinking e delirio di onnipotenza. Tuttora la propaganda neo-liberista continua a fomentare la propria bolla con improponibili storytelling, fake news, false flags, demonizzazione del nemico e censura della ragione. La soft power della comunicazione mediatica è stata costruita per decenni con enormi investimenti e cooptazione di “competenze” di ogni genere e sarà l’ultima ad arrendersi. Ha ripiegato la realtà alla propria visione, cambiando perfino la storia, ma non è riuscita a capire il proprio nemico, per analizzarlo e studiare il modo in cui pensa. Perciò, perifrasando leggermente Sun Tzu, si potrebbe dire che chi non conosce il proprio nemico non conosce nemmeno se stesso, e quindi è destinato a perire.
(Zory Petzova)
E ricordiamo anche questo: La corrispondente Lesley Stahl discusse con Albright di come l’Iraq avesse subito le sanzioni imposte al Paese dopo la Guerra del Golfo del 1991. “Abbiamo sentito che mezzo milione di bambini iracheni sono morti. Voglio dire, ci sono più bambini che morti a Hiroshima“, disse Stahl. “Vale il prezzo?“, le chiese. “Penso che sia una scelta molto difficile”, rispose la Albright, “per il prezzo pensiamo che ne sia valsa la pena“.
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